Memorie riassuntive dal di' 11 febbraio 1919 al di' ....
In merito alla foto che nell'ultimo presentava la nostra chiesa riddotta piuttosto male dopo lo scoppio di una granata all'interno durante la guerra 1914-1918, crediamo di fare cosa utile e interessante pubblicare le memorie di don Giovanni Battista Malfatti parroco di Castelnuovo dal 1911 al 1934 ritiratosi dalla cura d'anime per malattia.
Ecco come inizia:
Partito il giorno 8 febbraio 1919 alle otto antimeridiane da NEUTILSCHEIN in Moravia assieme a quei profughi e a due sorelle, giunsi a Borgo il di' 11 alla 10 pomeridiane. Il viaggio fatto in treno merci fu alquanto molesto. Se si chiudeva la sbarra del vagone (carrozzone), diventava buio pesto: se si apriva un pò per leggere il breviario o accudire alle faccende di cucina, entrava un'aria frizzante che gelava.
Eravamo disposti in 18-20 per vagone. Quando il treno si fermava o si rimetteva in moto, i vagoni subivano violente scosse che facevano cadere gli utensili di cucina e anche gl'incauti e i deboli. All'appressarsi dell'incomodo fenomeno ci si aggrappava l'un l'altro e si provvedeva alla sicurezza dei vecchi e dei bambini.
La notte si trascorreva sonnecchiando su sacchi o indumenti, o vegliando attorno al fornelletto. Fu difatti fornito di piccolo fornello focolare di ferro ciascun vagone, e il carbone fu dai profughi raccolto per le stazioni di passaggio con permesso dell'Autorità.
La maggior parte del carbone giunse a domicilio del profughi. Lungo il percorso fummo serviti di cibo de volte al giorno: a Lunderburgo, Vienna, Linz, Salisburgo, Innsbruk ecc.. A Lundemburgo furono pure distribuiti dl comando militare italiano 2-3 pacchi di commestibili per ogni famiglia (pacchi diretti a prigionieri italiani rimpatriati) e 40 capi di biancheria, i quali ultimi però rimasero in stazione perché il treno, per un malinteso , ci portò via prima che il sacco di quegli oggetti ci venisse recapitato. Però, fatto rapporto a Insbruk, vi fummo largamente compensati. Lungo il viaggio fummo allacciati ai profughi di mia spettanza i Usetin e Bansach, nonchè ad altri di altre plaghe fino a formare un convoglio di 1100 passeggeri. Però prima di tentare il Brennero, ne furono staccati circa 500, che proseguirono il dì seguente.
Ad Innsbruck ebbe luogo una visita medica, in seguito alla quale 8 profughi furono fermati perché troppo deboli a proseguire il viaggio e trasportati ad tempus all'ospedale. Durante il viaggio fui chiamato una sola volta al letto (o alla seggiola) d'un ammalato che però poco appresso si riebbe.
Le autorità e la persone di servizio ferroviario sia czeche che tedesche furono corrette. Il popolo slavo appariva contento per la ottenuta libertà e indipendenza; i tedeschi sembravano adattarsi rassegnati e quasi trasognati alla sorte.
Le autorità italiane, manco a dirlo, furono cordiali e premurose. Tutti i profughi portavano la coccarda tricolore, e dal finestrino cieco di un vagone sventolava una bandiera italiana.
A Trento lasciai tutti i profughi affidati alla mia cura e proseguii con la mie sorelle il viaggio per Borgo. Notizie giunte da fuori facevano intravvedere un arrivo gradito: paesi racconciati, quatrieri ammobiliati dalla carità dei fratelli, biancheria ed utensili a sufficienza, servizio viveri organizzato, lavoro pronto, prezzi onesti.
Io rincuoravo i profughi e li animavo a buone sperare. Perché la stampa ci avrebbe ingannati?
Così fu tanto più umiliante la delusione quando si dovette constatare che dopo tre mesi e mezzo dall'armistizio ogni cosa era ancora in disordine: case pericolanti, abitazioni deserte, scarsezza di manodopera, di attrezzi, di materiale. Le cause di ciò possono ridursi a due: a) l'inaspettata vittoria dell'Intesa sulle potenze centrali, la quale vittoria si attendeva per la prossima primavera e trovò i vincitori impreparati ai pronti provvedimenti per le terre redente; b) il carattere degli italiani, comune alle altre razze latine, largo e generoso nell'aiutare gli oppressi, ma deficiente nel coordinare disciplinare i mezzi di assistenza in un lavoro organicamente progressivo: una macchina a vapore che si spinge nello spazio senza il correttivo delle rotaie.
Dormii la notte 11-12 febbraio in una baracca a mattina di Borgo: due coperte, un giaciglio di poca paglia trita, e freddo intenso che rubò il conforto del sonno dopo si lungo e disagiato
viaggio. Celebrai a Borgo dove m'incontrai lietamente col signor arciprete don Luigi Schmid e i due cooperatori don Cesare Refatti e don Giuseppe Marcabruni.
Nella mattinata giunsi colle due sorelle Antonia (cuoca) e Maria a Castelnuovo, e pensavo a quella memorabile notte 16-17 giugno 1915 che mi aveva visto partire da Castelnuovo colla signora Anna Maccani e colla maestra Dellai sotto scorta militare (un guida pattuglie austriaco-trentino Umberto Zampccolo e due soldati germanici) per accusa di alto tradimento.
Trovai la canonica occupata. Tutto il quartiere a sera era abitato dagli ufficiali italiani - n. 5 - che vi tenevano anche la mensa (camera sud-ovest) e da due soldati (cuoco e cameriere).
Il mio studio sud-ovest era convertito in un magazzino d'armi e in dispensa. Il locale attiguo allo studio albergava 4-5 operai forestieri; l'altro locale ospitava la famigliola di Angelo Lorenzin: sposi e due figliolini Silvio e Antonietta.
Dapprima il sig. tenente capo era disposto a cedermi due stanze; ma più tardi, animato anche dalla remissività del preposto comunale (sindaco sig. Arturo Longo, ottima persona ma alquanto timido di fronte all'autorità militare) mi rifiutò, ond'io dovetti presentarmi in giornata al signor regio commissario civile Barbieri del Borgo, il quale telefonò a non so quale colonnello e n'ebbe risposta che, si sarebbe ordinato al sig. tenente capo di sgomberare due locali per mio uso. Così, dopo aver passato la notte 12-13 colle sorelle in casa Longo (sorelle fu Ernestina e viv. Fany) potei insediarmi nei due locali alla cucina (ex archivio e camera cuoca).
I primi giorni furono noiosi: così noiosi e deprimenti, ch'io già pensavo di far pratiche per un'altra cura. La canonica ridotta a due locali affumicati, malamente riparati in stagione ancora cruda, da finestre-maschere parte a vetri, parte a lamine metalliche o di cartona, inchiodate al solaio, i pavimenti tarlati, smossi e pregni di mille umori, il cesso pressoché inadoperabile per le porcherie e le esalazioni, il pensiero di un prossimo arrivo d'una sorella vecchia e impotente (Caterina), la mancanza assolta di arredi sacri colla conseguente necessità di portarsi ogni giorno al Borgo per celebrarvi, la desolazione dei fabbricati, lo squallore della chiesa, tutto permeava sul cuore e portava tristezza.
Ma dopo due settimane, in seguito anche alle parole non amorose ma categoriche del Vescovo da me interpellato deposi ogni pensiero di partenza e ne fui contento, perché oggi 27 marzo mi sono già, dirò così, ritrovato e ho ripreso la mia calma.
Ho celebrato al Borgo dal 12 febbraio all'8 marzo e dal 10 marzo al 15 detto. La domenica del 9 e dalla domenica 16 marzo in poi potei celebrare regolarmente nella mia chiesa.
Siccome sopra l'altar maggiore s'apriva nell'avvolto un foro di circa 90 cm di diametro, e gli altari laterali spogli di tutto e lesionati, non si prestavano alla celebrazione della Messa, scelsi l'altare della cappella del S. Rosario, privo bensì come gli altri, della pietra sacra ma in buono stato e più protetto contro le infiltrazioni pluviali.
La canonica, al mio arrivo, presentava due lesioni prodotte da granate: abbattuto per un metro di ampiezza l'angolo sud-ovest all'altezza della finestra di soffitta, e sfondato il muro est in egual dimensione con lesione della travatura del tetto tra la prima e la seconda finestra di soffitta (partendo dalla chiesa). Furono pure demoliti il soffitto e il pavimento dello studio.
Finestre e uscì asportati e sostituiti da telai e talvolta posticci e sconnessi.
Potei più tardi occupare i due avvolti a nord.
Gli altri - i migliori - furono adattati ad abitazione di profughi: Troian e ved. Maddalena Brendolise.
Anche la soffitta fu convertita in quartiere per profughi: tre famiglie si sono già alloggiate, e rimane spazio per altre tre. Questo agglomerato in canonica ha reso necessario un cesso esterno (dietro la canonica) e una scala pure esterna che porta direttamente in soffitta. I lavori relativi vanno a passo di lumaca e a sbalzi. Forse si attende, per il loro compimento, un'epidemia o un infortunio.
In che stato ho trovato la chiesa? È in piedi. Le bombe o granate l'hanno forata sopra l'altar maggiore, in sagrestia attraverso l'inferriata della finestra maggiore, nel muro della navata est dove s'appoggia il trave maestro che sostiene la loggia dell'organo, nel muro a ovest sotto la prima finestra. Due bombe sono pure scoppiate sopra la sagrestia e altre due contro la parete est del presbiterio. Il campanile fu pure colpito a nord a mezza altezza, ma non si mosse e non batte palpebra. Il tetto incombente all'abside conservo la sola travatura, da cui piove liberamente. I muri dell'abside sono assai deperiti e segnano larghe crepe. Il paese, tolta la canonica, che servi sempre qual sede del Comando militare, e le ultime case a ovest, fu tutto scoperchiato, non già dalle bombe ma dal lavoro quotidiano delle truppe austriache le quali, dopo l'avanzata del maggio del 1916, levarono dalle case tutto il legname (travature, soffitte, pavimenti, telai, imposte, uscì ecc.) per far trincee e per cucina.
I mobili e la biancheria ecc. tutto fu asportato o per uso di trincea o per famiglie di soldati. Il paese fu vuotato. Anche i borghesi forestieri, a quanto si afferma, hanno asportato molti oggetti: da Levico, da Pergine, perfino dai Mocheni (Val di Fersina).
Le case più lesionate, anche perché piazza.
Di S. Margherita che hanno abbattuto,+ là rimangono: il campanile, la pareti della chiesa e l'atrio. Nel cimitero sono pure cadute alcune granate - o cannonate - che hanno abbattuto la croce centrale e alcune lapidi. Come si conduce la vita?
È aperta una cucina gratuita al Borgo, alla quale prendono parte anche alcuni parrocchiani. Ogni 10 giorni si approvvigiona il paese per distribuire vivande gratuitamente alle famiglie (scatole di carne, pane, farina bianca e gialla, zucchero, caffè, riso ecc. Frattanto si costruiscono baracche, delle quali oggi (4 aprile 1919) nessuna è ancora pronta.
Si spera di dar ricetto in 15 giorni a 21 famiglie: la quarta parte al più dei profughi non
rimpatriati. E' un'angustia desolante il pensiero della campagna abbandonato; di cui non si sono ancora rilevati i danni, e al e cui lavoro non si può pensare per mancanza di tutto: operai, attrezzi, mezzi di trasporto. concime, ecc... Se passa così l'aprile, addio entrate.
L'11 marzo sono partiti i bersaglieri che vennero sostituiti da fanteristi dell'82° in numero di ottanta circa.
Hanno cominciato col pulire le vie e le piazze, come pure i cortili dal letame e dal ciarpame.
Poi alcuni soldati furono messi a disposizione dei civili per lavori di sgombero e di riassetto nelle campagne. Io ne ho due che rimettono a posto la rete di cinta del broilo. Si corrisponde loro con una mancia secondo le forze. Lavorano delle 8 alle 10 e mezzo e dall'1 alle 5. Il letame è accatastato in molti luoghi e viene usato dai proprietari del fondo relativo, ciò ce dà una preferenza ai maggiori fondisti, le cui stalle furono e sono adoperate per i cavalli dell'esercito e del presidio. Moltissimo letame dovrebbe essere considerato come bottino di guerra e ripartito quindi fra i contadini in proporzione all'area coltivabile; ma il mondo è di chi se lo piglia, e chi se lo piglia oggi è il
più forte: amen!
La Croce rossa americana (Stati Uniti) ha lasciato qui e in tutto il Trentino buona memoria di sè per le largizioni in commestibili, biancheria, vestiti, mobili, ecc. Qualche capo di
famiglia arriva di quando in quando dal regno, dà un'occhiata a quella ch'era la sua casa, si mette le mani nei capelli e s'industria a raccomodarsi un bugigattolo per chiamarvi la
famiglia. Ora (15 marzo) è proibito il lavoro singolo, e tutti devono lavorare alle baracche.
Gli operai ricevono 4-5 lire al giorno, più il rancio militare.
Lavorano dalle 7 e mezza alle 12 e dalle 1 alle 5 e mezza. Sorveglia i lavori un sergente del Genio militare; ogni giorno giunge dal Borgo un qualche ufficiale, e ogni settimana un
generale (gen. D'Antoni). Le baracche sorgono in prossimità al paese nella località Pariolo.
Le statue della Madonna del Rosario e dì S. Margherita furono salve e vennero ricoverate nel presbiterio dell'Arcipretale del Borgo. Ora (4.4.1919) la prima è ritornata da otto giorni nella sua nicchia, e la seconda fu collocata provvisoriamente sull'altare laterale a sinistra.
La prima ha mutilate le prime falangi dell'indice e medio della mano destra, presente una
scalfittura a sinistra della bocca e un foro, praticato da un proiettile, poco sopra le caviglie. S. Margherita ha piccole mutilazioni alla mano sinistra, la coda del dragone s'è rotta e staccata a due decimetri dalla punta, e alcuni denti del galantuomo sono pure stati infranti. La corona della Madonna, la crocetta sul globo del bambino sono spariti.
Nella chiesa rimase intatto l'altar maggiore, ma la porticina del tabernacolo fu incolata.
Anche l'altare del Rosario fu rispettato, se si eccettui il vetro della nicchia, che fu distrutto. Gli altari laterali furono variamente lesionati. Le pietre sacre vennero tutte asportate: quella dell'altare a destra rimase, ma ne fu levato il sepolcreto.
Il Comune ha fatto acquisto d'una campanella da un frugatore di oggetti perduti o sotterrati di oggetti abbandonati durante la guerra. Costa 50 lire. In questi giorni si lavora sul campanile per collocarci il piccolo bronzo (4.4.1919). La granata scoppiata in sagrestia ha messo allo scoperto tracce di dipinti di sotto gl'intonachi.
Tentai di scrostare con un temperino una parete e vi scorsi una scena relativa a qualche santo: due persone in ceppi, due altri personaggi in piedi. Altri saggi praticati collo stesso mezzo meccanico portarono ad altre scoperte. Si tratta di dipinti di quattro secoli addietro. Ne ho fatto relazione alla sezione belle arti del Governatorato di Trento. Vedremo. 5.4.1919. Oggi ho perduto la speranza di ricuperare le campane.
I due soldati che lavorano nel broilo ne scopersero un pezzo appartenente alla campana maggiore, un dm quadrato dello spessore di cm 2 e mezzo. Vi è rilevato un fascetto di
quattro spighe con pendoncini e foglie attorno.
Le campane furono atterrate, previa rimozione della colonnina che formava la bifora alla cella
campanaria che fu pure precipitata col suo zoccolo. L'uno e l'altra rimasero incolumi.
Nella caduta hanno compresso il suolo e colpito il muro di cinta del cimitero, le cui
fondamenta furono spostate e produssero per compressione un elevamento del terreno adiacente.
Voci Amiche feb, apr, magg, giu, lug, ago. 1988
I paesani non dimenticarono più quel drammatico maggio del 1916. Non Io dimenticarono,
benché avessero saputo da tempo che l'Austria stava organizzando un attacco violento sui monti tra l'Adige e la Brenta.
Era passato un anno da quando le forze della I armata italiana avevano aperto le ostilità al confine di Primolano: nel dicembre del'15 la linea del fronte correva tra Val di Sella, Borgo e Torcegno. Poi l'avanzata ristagno perché gli Austriaci tenevano il controllo delle cime e dai forti della Panarotta e del Pizzo di Levico cannoneggiavano di continuo gli avamposti italiani. Della controffensiva si sapeva; tuttavia l'arrivo della milizia a cavallo sul mezzodì buttò la popolazione nello sgomento.
--- Sgombrate le case! -- Fu l'ordine ripetuto di corte in corte quando le famiglie da poco s'erano sedute a tavola. Si può immaginare il tramestio prodotto da quell'intimidazione buttata senza tanti chiarimenti dagli uomini della milizie. Si doveva partire, perché l'invasione era imminente, e non si diceva per dove; solo che facesse presto: entro breve tutti sullo stradone con le proprie cose.
Di botto il paese si trasformò in un formicaio violato: gente che entrava in casa, ne usciva, vi entrava ancora, un incrocio di voci alterate dappertutto. Qualcuno scendeva in cantina a raccogliere « pèze» di formaggio, altri tirava sotto « el pontesèlo›› il carro e su questo faceva cadere « paioni››, tegami, indumenti e quantaltro era stimato bene necessario; chi faceva uscire le pecore dalla stalla, chi prendeva in custodia le vacche.
Era l'ora che le galline lasciano le buche sotto la pergola e si raccolgono davanti l'uscio a « pestolar ›› con un << co - co - co che - che - che ›› sommesso, quasi ad implorare il « pastolà ›› quotidiano. Ma quel mattino la padrona non rispose con l'abituale « qua, cocole, cocole››; buttò di fretta una manciata di sorgo e di sorpresa afferrò le galline una per una.
Nell'ora fissata dalla milizia il paese si svuotò: una lunga fila di carriaggi sullo stradone polveroso prese avvio verso destinazione sconosciuta; ogni famiglia con il suo carico di prole, di anziani, di masserizie e di bestiame partiva portando nel cuore l'angoscia dell'ignoto.
-- Dove? -- Per quanto? - Domande senza risposta. Era la guerra. Con questa parola si dava ragione di ogni più assurdo sacrificio.
Non c'era del resto tempo di chiedere chiarimenti, occupati come erano tutti a tenere insieme l'incerta carovana domestica. Il capo famiglia conduceva il carro e vigilava sul carico; seguiva la moglie con il resto del bestiame ed i figli con altre incombenze. Di tanto in tanto qualche vitello od un maiale, insoddisfatti del procedere al ranghi chiusi, preso congedo, trotterellavano per la campagna vicina in cerca di libertà.
Mano a mano che la comitiva lasciava i paesi conosciuti verso le retrovie italiane, in senso opposto salivano reparti militari in assetto guerra. Erano truppe fresche che prendevano posto alla frontiera dopo lo sgombero della popolazione civile; soldati che marciavano sotto il peso dello zaino con moschetto in spalla: a piedi, come era nella consuetudine dell'epoca.
In testa alla compagnia l'ufficiale a cavallo dall'occhio di falco che fissava i monti e la mano fiaccata nel fianco. Veniva spontaneo, nell'incrocio tra popolazioni in fuga e soldati dall'aria stanca, uno scambio di avvilite espressioni di incoraggiamento. Tra i profughi c'era qualcuno dallo spirito vivace, in grado ancora di tenere sollevati gli animi.
-- Talianì, benvenuti! -- Si mise a gridare.
-- Nostri liberatori! Le nostre speranze le è in voialtri! --
Non parve vero all'ufficiale a cavallo raccoglieva espressioni tanto lusinghe:
subito guardò i soldati ed ammonì.
-- Avete sentito, ragazzi, come ci accoglie bene questa brava gente? Avanti, dunque, a liberare il Trentino!
-- E l'occhio di falco tornò a fissare i monti.
Non aveva udito l'ufficiale come quell'altro avesse ripreso sottovoce.
-- Ndé su, ndé su, vedaré come i Todeschi i ve conza par le feste! ---
Continuò per tutto il giorno il cammino dei Castelnovatti profughi e poi ancora: lungo la strada molti animali furono venduti e così il formaggio. A Bassano treni speciali raccolsero i profughi della Valsugana per destinazione lontana. Per tutti incominciava l'epoca del profugo.
Frattanto, il 15 maggio 1916, dopo martellante bombardamento, la terza armata del generale Conrad rioccupava in Valsugana i nostri paesi.
CLAUDIO DENICOLO'
Voci Amiche giu 1979
CLAUDIO DENICOLO'
Voci Amiche ott 1975
Venerdì 2 luglio 1915
Castelnuovo possiede un prezioso e completo paramento sacro, comperato all'epoca napoleonica dai soldati francesi che passarono di lì; e che lo aveano rubato Dio sa dove.
Ebbene: questo famoso paramento entrato in paese per mano di soldati; dai soldati fu anche
portato via.
Nella notte tra l'uno e il due luglio, all'una precisa, il parlamento arriva al Borgo sopra un carro tirato da due giovenche; e continua il viaggio per Roncegno.
Ecco come andò la cosa.
Ieri sera, alle venti e trenta, fu nel convento del Borgo un certo Umberto Zanipiccoli da Trento sergente di gendarmeria a Pergine, per chiedere se il Padre che supplisce a Castelnuovo quel parroco si trovasse in casa ovvero altrove.
Inteso che si trovava in convento, disse che quel Padre doveva accompagnarlo subito a Castelnovo: perché mons. Vicario della d1ocesi (Ludovico Eccheli) lo aveva incaricato di prelevare il famoso paramento, e di consegnarglielo personalmente a Trento. Aggiunse che il Vicario gli aveva promesso --- a fatti compiuti -- cento corone di mancia; e sperava anche, se fosse riuscito, di ottenere una medaglia al valore dal comando militare.
Richiesto di esibire uno scritto, e messo alle strette, il sergente confesso che l'iniziativa partiva da lui. A Pergine -- disse -- un falegname di Castelnovo mi parlo del prezioso paramento che quella chiesa possiede; e mi disse che lo tenevano custodito nella sacrestia in un armadio a doppio fondo, ma che aveva timore che il fuggiasco . . . . . avvertisse gli italiani di quella preziosita nascosta nella chiesa. Allora venne a me il pensiero di porlo in salvo. Andai a Trento dal Vescovo che non trovai. Parlai invece con mons Vicario. Ebbi il consenso dall'autorità militare; e, in compagnia di un mio camerata, sono arrivato or ora al Borgo; e questa notte voglio eseguire l'impresa a qualunque costo.
A Castelnovo vengono svegliati i due fratelli sacrestani, i fabbriceri . . . e, stesa una scrittura di consegna e di ricevuta, senza difficoltà alcuna, gli viene consegnato il paramento, e fu trovato anche il carro per trasportarlo fino a Roncegno.
Lunedì 5 luglio Mons. Riccardo Rigo racconta che un certo Ferrai, venendo da Pergine al Borgo, a Levico si scontro in un carro militare su cui era il paramento di Castelnovo; e rimase meravigliato nel vederlo così esposto al sole, alla polvere, al vento, e forse anche alla pioggia.
Ricordo della I guerra mondiale
Nella casa di proprietà comunale ex De Bellat, situata in via Trento, e che ora sta ristrutturando c'è un particolare che forse non tutti conoscono.
Nella facciata che guarda a mattina, c'è un foro del diametro di circa un metro per un metro e mezzo, che è stato chiuso all'interno con dei mattoni pieni, però dall'esterno e ben visibile.
Questo foro nel muro e stato fatto da una cannonata del 1°artig1ieria italiana situata sul monte Lefre nella I guerra mondiale 1915-1918. Il paese poi fu ridotto a una rovina, ma questa testimonianza della prima guerra c'è ancora.
La triste circostanza della morte recente del nostro concittadino, Romeo Andriollo mi porta alla memoria un periodo di storia di molti anni fa.
Siamo nel 1936. Il governo di Mussolini nella voglia di espansione coloniale, con la guerra ha conquistato 1° Etiopia nell'Africa Orientale.
Oltre ai soldati occorrono anche operai per fare strade dato che quelle zone sono assolutamente prive. Otto giovani di Castelnuovo fra i quali anche Romeo partono volontari per l'avventura africana; attirati dalle promesse di un buon guadagno perché allora nei nostri paesi vi era miseria.
Il mattino della festa di S. Leonardo 1936 questi 8 giovani castelnovati sono in piazza
in attesa della partenza. lo sono presente e nella mia giovane mente sogno la loro
avventura, con un grande desiderio di essere con loro. Ma sono troppo giovane, 15
anni, e non posso partire.
Arriva un camion militare e loro partono. Arrivano a Trento e poi in treno raggiungono Genova. A Genova devono aspettare alcuni giorni perché la nave della società Rubattino non e pronta.
Finalmente si imbarcano, si attraversa il Mediterraneo, il Canale di Suez, il Mar Rosso e si sbarca nel porto di Massaua, in Eritrea. Di lì si va verso l'Asmara e poi avanti a costruire strade per colonizzare l'Impero.
Questo me lo ha raccontato Romeo stesso negli anni in cui siamo stati al lavoro assieme nei vari cantieri.
Tornarono a casa nel 1938 prima che cominciasse un'altra guerra.
Ecco i nomi di questi giovani del tempo: Andriollo Romeo. Lanzarini Secondo, Lorenzin Giovanni, Brusamolin Vittorio morto in Africa, Galvan Adone, Granello Gustavo, Denicolò Alfonso e Lira Giuseppe. Gli ultimi due sono gli unici viventi e abitano fuori paese.
Cari cugini
è molta l'emozione e felicità a scrivere queste righe già che all'inizio di quest'anno non avevo l'idea di avere una famiglia così numerosa e bella.
Quando io sono nato papà era già morto e mio fratello aveva un anno e mezzo, mamma ci ha regalato a due famiglie diverse e noi più ci siamo visti fino a un anno fa.
Io ho avuto la fortuna di essere cresciuto ed educato in una famiglia nobile in tutta la sua parola.
La peggiore sorte è toccata a mio fratello Cesare che non ebbe la fortuna di essere adottato da una famiglia buona come la mia, ma da bestie che lo sfruttarono nel lavoro, non gli davano da mangiare, lo facevano dormire in una stamberga con le capre, senza dargli a un'istruzione.
Tutto ciò ha lascito le sue tracce, giacché pur forte come un toro, a 64 anni non ha pensione, non ha assistenza sociale e tanto meno casa.
Fino ad'un anno fa credevo di essere l'unico Brendolise al mondo, grazie a Dio e a quella onorabile famiglia che mi ha saputo allevare, darmi una professione e permettermi di formare una famiglia.
Ho una casa che ho potuto comperare grazie all'aeronautica, vi dico che mi è costata grandi sacrifici.
Non potete immaginare le volte che sorvolai sopra il Trentino normalmente provenendo da Israele verso la Francia o dall'Italia verso la Germania, se avessi saputo che la famiglia di mio padre si tro va va da quelle parti avrei fatto un salto per salutarvi.
In aeronautica entrai a 17 anni e mi ritirai a 56.
Bene cugini, credo che non sarebbe sufficiente tutta la carta del mondo per raccontarci per lettera la storia delle nostre famiglie,
Vostro cugino
Mario Lino Brendolise
LinoBrendolise-002a.jpg
Da sinistra Cesare e Mario nel giorno del primo incontro.
Castelnuovo notizie n.2 dic 1997
Ho cercato, in queste pagine, soltanto di riassumere ricordi e integrazioni postume. Se ho deciso di riportare l'attenzione a quegli anni e a quei fatti e a ricostruire una vicenda che riguarda soltanto l'autore di queste righe non è stato certo per lettori che non vi sono e probabilmente non vi saranno mai; né per un particolare desiderio di usare il pronome di prima persona. Ho solo cercato di ricordare: soprattutto ricordare chi non c'è più ma con me ha condiviso quei tempi e quegli eventi. In certo modo dare loro ancora un attimo di vita. Mi sono sforzato di raccontare le cose awenute, di riesumare i pensieri che accompagnavano i fatti. Se vi siano in queste pagine inesattezze riferibili a date o a persone o a singoli fatti, assumendomene piena responsabilità, devo inchinarmi ai limiti fatali della memoria.
IL CARCERE DI BORGO
La sera del 25 marzo un gruppo di militari tedeschi (questa volta non SS) raggiunse la mia abitazione, nella vecchia casa della famiglia Strosio a Telve, e procedete al mio arresto. Evidentemente delle mie mosse e dei contatti con gli esponenti clandestini la gendarmeria era bene al corrente. Il luogo dove mi trovavo era il vecchio ospedale di Telve, di epoca austriaca, praticamente disabilitato e in parte abbandonato; due piani erano stati riadattati per ospitare il centro scolastico e la varie classi; al terzo piano, abitazione della famiglia Strosio (Giuseppe Strosio e la sorella Maria vivevano a Varese, dove la famiglia aveva una farmacia) eravamo alloggiati mia madre ed io. Avevamo dovuto spostarci da Castelnuovo, troppo vicina alla linea ferroviaria e al ponte sul Maso, oggetto di continue incursioni aeree e già più volte colpito.
Poche parole, un breve saluto e trasferimento, per la verità senza manette, al carcere di Borgo. Inutile chiedere spiegazioni. Il custode della prigione locale (sei o sette celle) -di cognome era Agnolin- diceva di aver solo eseguito ordini mettendomi e tenendomi sotto custodia; era, diceva, cosa della gendarmeria tedesca. La stessa pretura, a capo della quale in quegli anni era il dottor Lo Presti, non aveva avuto alcuna spiegazione. Ordini superiori. Si lasciò tuttavia sfuggire qualche cosa ai miei 'visitatori', facendo intuire che doveva semplicemente attendere i gendarmi della pattuglia trasporti che avrebbero provveduto al mio trasferimento al campo di concentramento di Bolzano per le successive decisioni del potere militare. Della mia custodia e dell'aggregazione al carcere mandamentale di Borgo non ho trovato traccia negli anni seguenti; ne riscontrò menzione molti anni dopo, in un forse dimenticato registro, Giuseppe Sittoni, che cortesemente mi trasmise fotocopia della pagina che mi riguardava e che portava la data dell'evasione, ma non dell'arresto: suppongo che questo non fosse stato nemmeno notificato alla pretura locale. Il precitato registro del carcere riporta però la data della mia evasione, che figura avvenuta in data 28 marzo 1945, previa precedente assegnazione in custodia, forse non notificata, dell'arrestato a certo Agnolin Giovan Maria, di Francesco, di anni 38. Figura a margine l'annotazione: "denunciata (l'evasione) alla Procura di stato il 31 marzo, n. 196". E cosi mi ritrovo (la fotocopia del foglio di registro carcerario mi è stata favorita proprio dal Sittoni) tra ignoti carcerati (e rilasciati) -per furto e nominativi di persone indicate o trattenute per appropriazione indebita.
In quel carcere rimasi solo due giorni; al terzo giorno avevo già organizzato la fuga, o evasione come afferma il registro. A predisporre il tutto fu l'amico, ancora studente di economia ma con incarico parziale d'insegnamento al Centro scolastico della Valsugana Inferiore, Valerio Strosio, il quale si occupò di trattenere l'Agnolin in conversazione (il carceriere era poco rigoroso e certo non prevedeva una fuga, in quelle disperate situazioni, di un detenuto che aveva le forze militari tedesche alle calcagna). Approfittai della breve conversazione in cui Valerio stava intrattenendo l'Agnolin, per uscire dalla cella lasciata socchiusa dal visitatore e fuggire di corsa.
Il carcere di Borgo si trovava nella parte vecchia del paese in direzione della Chiesa che prende il nome di Madonna di Onea; pochi passi fuori e si trova il ripido sentiero che dal borgo si inerpica verso il castello più alto sovrastante la località di Torcegno. Era questa la meta del mio progetto di fuga; oltre a tutto sopra Torcegno, nei cosiddetti masi, erano rifugiati amici di Castelnuovo, in particolare la famiglia Campestrin, a me legata da amicizia e parentela. Più che di strada percorribile si trattava di un passaggio scosceso destinato ad abbreviare il tragitto a persone capaci di tener fiato alla salita.
Io ricordo solo che in quella notte (la fuga era avvenuta verso le sei o sette di sera), mi sembrava che orde di gendarmi mi inseguissero per catturarmi, correvo a perdifiato, mi fermavo ogni tanto ansimante, mi volgevo indietro e vedevo qualche rara luce del borgo; si scorgeva assai bene la strada sotto il primo chiarore lunare. La corsa era a perdifiato, lo spavento, o meglio il terrore, di esser ripreso ancora maggiore.
Che cosa provi un fuggiasco in quei momenti in cui non sa come possa concludersi la fuga è difficile capire. Che si può fare una volta sfuggiti al piccolo purgatorio carcerario (l'inferno è previsto solo successivamente)?
Sentimenti opposti, mentre guardi verso il basso quei paesi e paeselli immersi nella semioscurità. Ti senti come il classico topolino con il gatto alle calcagna, hai predisposto tutto con una certa cura, il piano ha funzionato, ma adesso? Arriverai in cima a questo sentiero, troverai il rifugio che ti eri riproposto? Ti accoglieranno? Per tutti la paura di ospitare un ricercato fuggiasco può esser un deterrente. Arrivo in cima al sentiero lungo i costoni del castel Tricorno, vecchio maniero abbandonato. Superata sulla destra la borgata di Torcegno, proseguo di corsa verso la località Campestrini, dove sono rifugiati i miei amici di Castelnuovo. Credo di esser loro apparso come un fantasma, visto che la notizia della mia evasione certamente non si era ancora diffusa. Mi accolgono volentieri e mi fanno riposare, per quella notte, nel sottotetto della casa colonica in cui sono rifugiati. Non si sa mai, meglio la prudenza. Per la mattina seguente ho appuntamento con Valerio. Dobbiamo predisporre un piano di fuga dalla zona, che certamente sarà oggetto di perlustrazioni.
Con l'acqua alla gola ero arrivato alla casera dove s'erano rifugiati per sottrarsi alle perlustrazioni notturne del mosquito chiamato quasi familiarmente Pippo: sfuggito alle celle mandamentali del buon Agnolin, abituato ad aver a che fare solo con i piccoli ladruncoli, di consueto non disposti mai alla fuga (c'erano persone che, in quei tempi duri, preferivano la detenzione a una libertà che non offriva qualche cosa da mettere in bocca; meglio il carcere che rubar galline, ammazzare gatti e "andar alla minestra dei frati"). Uscire da un carcere con i lacci delle scarpe appena in?lati e passare da un fondo valle a 392 metri e arrivare quasi di corsa a circa 700 metri lungo un sentiero "da vaccari”, vista a distanza appare una semplice forma di pazzia che peraltro fu condivisa da tutti i miei studenti e gli insegnanti, che mi diedero una mano in tutti i modi, come racconterò. E io, protagonista di questa. vicenda, mi chiedo a sessanta anni di distanza le ragioni di questa temeraria impresa, di queste decisioni violente e incoscienti allo stesso tempo. Senza dubbio i "ragazzi" (quali in fondo erano quei poco più che studenti - insegnanti coinvolti nel tentativo di fuga) a loro modo erano essi stessi partecipi di un sentimento oscuramente difensivo, l'avversione per un occupante padrone, confusamente condiviso e identificato prima, durante e dopo nel termine divenuto poi comune di "Resistenza", valori e ispirazioni in cui altrettanto confusamente ci si identificava. E, senza dubbio, ho anche un rimorso tardivo; tutti quei "ragazzi" mi hanno preceduto di molte lunghezze nel lungo viaggio che volge per me ormai a sera dopo brevi raggi di sole. Nessuno di questi miei compagni di un'impresa che forse era insensata, superò il traguardo del mezzo, o poco più, cammin di nostra vita (almeno nelle cifre odierne). Perché Valerio, Carlo, Archimede hanno allo stesso tempo compiuto un tentativo assurdo e assunto un rischio che poco o nulla poteva giustificare? Non ho nessuna intenzione di raccontare una storia o un'avventura personale, mi interessa soltanto ricostruire quello che mi indusse ad una fuga in sé comprensibile (sfuggire al predatore), ma senza alcuna più attenta e misurata valutazione degli ostacoli.
Come sarebbe stato possibile, in quegli ultimi giorni di marzo primi di aprile, risalire verso un valico non superabile in quelle fasi invernali, per di più senza attrezzatura, neppure un gambaletto o una racchetta, o un semplice bastone da montagna? Ripeto, terrore e incoscienza: se ora cerco di rivivere, a sessant'anni di distanza, i sentimenti che provai, e che mi sconvolsero in quella notte per me indimenticabile (eppure vissuta quasi come risucchio di pagine letterarie; realtà e immaginazione si accumulano) è solo per tentarne una pallida ricostruzione. Che vorrebbe, se possibile, accantonare del tutto i pronomi di prima persona e metter insieme i tasselli sparsi di quella vicenda che coinvolse almeno una dozzina di persone, ma di cui certamente due -Valerio ed io- furono protagonisti di una notte di splendore lunare, di morso del gelo struggente, di neve in cui si affondava, di acque gelide al di sotto di ogni umana soglia tollerabile; ma la sola via di scampo in cui si poteva tentare una fuoruscita da quel gorgo di orrore dantesco.
Tomo alla partenza e ai primi programmi.
TROVARE UN RIFUGIO
Siamo al maso dei Campestrini nel cui sottotetto ho passato la nottata. Valerio, che non mi ha seguito della corsa spasmodica da Borgo-Onea verso Torcegno, è salito il mattino seguente al maso, nel bosco in cui ho trovato provvisorio rifugio. Nel frattempo ho in?lzato tutti i calcoli di fuga possibili. Riattraversare la val Brenta con la gendarmeria alle calcagna sarebbe pericoloso; scendere verso Bassano tenendosi a quota lungo il costone della Valle piuttosto assurdo, troppi controlli; tentare la via della Val di Cadino o Fiemme, dove ci sono gruppi partigiani, purtroppo ora quasi dispersi, è sconsigliabile; restare in loco, con amici che ospitano un evaso, mettendoli a rischio di ritorsioni (viviamo nel pieno degli informatori occulti e ben pagati; lo si saprà meglio a guerra finita) non è il caso. La mia proposta, che certo ha un margine insospettato di rischio, ma per la mia buona conoscenza dei luoghi appare non del tutto assurda, è tentare il valico delle cinque Croci. Dalla Valsugana, val Campelle e il passo delle cinque Croci quella via di fuga porta in Val Cortelle, sotto il Sovramonte di Fonzaso e non lontano dalle Vette Feltrine; tra queste, l'Alpago e il Cansiglio c'è un reticolo quasi continuo di brigate partigiane operanti in clandestinità ma armate e capaci di controllare un territorio in cui è possibile sperare e ottenere varchi di transito, fuga e rifugi di guerra.
È proprio quest'ultima mia proposta a venir accettata. Due dei miei studenti insegnanti del Centro, Archimede Fiorese e Carlo Ferrari, la mattina successiva inforcheranno una bicicletta ciascuno (una è la mia Legnano che stava in casa a Telve) per raggiungere attraverso le strade ordinarie “la scaletta” di Primolano, il Fastro, Val Cortelle e Caoria. Appuntamento nella tarda mattinata del 30 marzo all'osteria delle Refavaie, che io conosco per averla frequentata assai spesso nei miei percorsi montani tra Montalon e Lagorai. Alle Refavaie arriva infatti la strada carrabile che parte dal piccolo centro canalino (l'area di Canal San Bovo) di Caoria. Si può raggiungere in bicicletta.
Avevo fatto tutti i miei calcoli meno il più importante: in quella stagione spesso il valico delle cinque Croci, solatio nella parte che dà sulla Val Brenta si trova a pisterno, e cioè contro sole, nella parte che scende oltre il valico. Spesso in tale zona, poco o per nulla solatia (lo sanno bene gli alpini che vi costruirono la mulattiera durante la prima guerra mondiale, oltre a tutto ancora attrezzata almeno fino agli anni trenta) si accumulano lungo il percorso banchi di neve e si formano lastroni di ghiaccio. Di tutto questo nulla avevo calcolato. Morale: un po' di preparativi, intese di corsa tra il fuggiasco e i tre giovani studenti-insegnanti, partenza dal maso dei Campestrin fissata per la prima ora serale del 29 marzo.
Appuntamento per il giorno 30 a mezzogiorno alle Refavaie, passo delle cinque Croci e val Cia; al passo nasce il torrente che la percorre, e poi diventa, tra un affluente e l'altro, il Vanoi: sfocia poi nel Cismon, sua volta tributario del Brenta attraverso il lago del Corlo e le gole del Tombion. All'osteria delle Refavaie una bicicletta resterà per me e Valerio (un passeggero in canna); l'altra, con identica modalità di trasporto in canna, servirà a Carlo e Archimede per il rientro a Borgo.
PARTENZA AL BUIO
Si raggiunge dal maso la strada carrabile che da Telve porta in Val Calamento. Occorre percorrerla?no al bivio di Pontarso, dove il torrente Maso, che scende dal passo del Manghen, incrocia il rio Campelle, sulle carte oggi indicato come Masetto o Maso di Spinelle. Da un paio d'anni funziona una diga che raccoglie le acque del torrente Maso a fini idroelettrici; e a fianco della diga c'è anche un piccolo posto di ristoro, dove arriviamo, con sorpresa del custode della diga, verso le otto di sera. Il sorvegliante ci guarda con sospetto: siamo in zona di banditen peri tedeschi, in val Cadino già ci sono stati vari rastrellamenti. Inutile cercare di rassicurarlo che siamo casuali viandanti di passaggio. Comunque non è scortese, ci consente di affrontare la solita rosolata di trote pescate nelle acque della diga. E via di corsa. Che poi abbia anche telefonato alla sua centralina di raccolta e da questa la notizia sia trasvolata alla gendarmeria di Borgo è probabile: a guerra finita mi è stato assicurato che la mattina seguente molte pattuglie si erano inerpicate lungo le asperità di quelle vallate. Voci e boati probabili. Ma chi avrebbe potuto pensare che i due viandanti della diga di Pontarso avrebbero affrontato, in quei mesi di fine inverno, il passo innevato delle cinque Croci e la "terribile" val Cia del Vanoi? Solo dei pazzi potevano tentare una simile impresa. E non metteva cono mandar pattuglie a inseguirli. Forse questo avevano pensato i gendarmi tedeschi. Comunque sacco in spalla e via. Discesa, dalla sommità della diga di Pontarso verso val Campelle, risalita al rifugio detto del Crucolo, ben noto a chi aveva per anni frequentato la valle del Zenon e il rifugio dei Carlettini. Arriviamo al rifugio dopo un'ora bondante di marcia; l'edificio è nascosto, quasi strana dimora di elfi, tra altissimi pini, illuminati dalla luna. Nel prato, come fungo tra erba e arbusti, la cappella dove il maestro Battocletti e la signorina Mercedes Carlettini organizzavano la messa domenicale estiva (ah quel lungo e disossato don Gino Guella, che, lieve lieve, navigò stamattina alla sua pieve...). Un silenzio assolto, da montagna senza fruscio o eco, neve appena a ?or di scarpa. Al rifugio prende corso una discreta carrareccia, residuo essa pure della guerra del '15 e delle nostre postazioni sul sovrastante Tombolin di Caldenave; la si percorre in venti minuti fino al ponticello in cui le due valli si suddividono, da una parte Campelle, e di qui in salto la malga di Conseria, collocata come un castelletto da presepe al centro del colle di San Giovanni, il cui spiazzo terminale corrisponde proprio al passo delle cinque Croci. Dall'altra si apre la val Sorda che porta alle tre forcelle del Montalon, di Moena, delle Stellune.
Sono i monti della catena del Lagorai, che partono dalla Cima Cermis (resa famosa -trent'anni fa per il primo disastro della funivia) arrivando al gruppo di Cima d'Asta; la forcella, o passo delle cinque Croci, è in certo modo al centro di questo piccolo quasi sconosciuto acrocoro, che, dopo la seconda guerra proposi di battezzare come "i monti della solitudine", vista l'assenza di vie di comunicazione tra le loro impervie vallate. E ricordo che il prof. Ruggero Tomaselli, allora assistente universitario (e per breve tempo insegnante al nostro Centro scolastico), gli aveva dedicato una monografia dallo stesso titolo, che mi riproponevo di far stampare. Non so se il testo, che certo ebbi tra le mani, sia stato pubblicato, dato che il caro prof. Tomaselli, durante un viaggio tra Roma e Pavia, dove aveva vinto la cattedra all'Università, ebbe un incidente di macchina che ne causò la morte.
Lasciato il ponticello che separava i due versanti si saliva lentamente verso il San Giovanni, rasentando sulla destra malga Conseria, strano tassello di sassi, legno e tetto a scandole costruito in mezzo a quella distesa leggera di neve da cui affioravano sprazzi di verde, quasi di erba in attesa di venire alla luce; e poi avanti, con quelle montagne so+litarie davanti a noi, quei valichi lontani per cui non sembrava transitare piede umano, quel silenzio implacabile e dolcissimo di foresta chiusa nella sua notte ma illuminata dal suo diffuso chiarore lunare.
Una natura quasi ignota e inconoscibile; eppure a non grande distanza i cannoni sparavano, la linea gotica era un sussulto di fremiti da esplosione, enormi carrozze del cielo sganciavano micidiali ordigni. E tra noi due un silenzio quasi assoluto, come se avessimo alle calcagna i reparti inviati a darci la caccia; si che stupore, bellezza e fremiti quasi convulsi di nascosto terrore ci attanagliavano e ci impedivano di parlare.
Si arriva finalmente al passo. Che ore sono, penso poco più delle dieci, la strada era stata buona; il sentiero alle Refavaie di solito si percorre, a discesa, in un'oretta a piedi o poco più. Ecco, la prima parte della fuga è riuscita, ha consentito perfino una breve sosta sulla forcella, un lungo spiazzo piano da percorrere fra i due versanti, il tempo ancora di qualche ri?essione su quelle montagne solitarie, sul nostro destino una volta superato il passaggio in quel latteo chiarore lunare. È ora di cominciare a scendere, il cuore gonfio non saprei bene di che cosa.
CUMULI DI NEVE, LASTRONI DI GHIACCIO
Oltre le cinque Croci ha inizio quel tratto del torrente Vanoi cui è dato localmente il nome di Cia. Di qui il termine Val Cia. La lieve euforia scompare subito, non abbiamo nemmeno percorsi in discesa i primi dieci minuti di strada che ci accorgiamo dell'errore. La neve è alta e compatta lungo la mulattiera; ogni tanto sotto i pini si è formato un gran buco vuoto con intorno una coltre di neve, una specie di fungo rovesciato. Certo il mio compagno di avventura non può immaginare quel che sto pensando. Mi era infatti tornato alla mente un racconto di tanti anni prima, letto chissà dove, autore Jack London, dal titolo "Accendere una infiammata". Vi si narrava di un cacciatore di pelli del Klondike; col suo cane tenta un varco nella foresta coperta di neve; ha lasciato il campo dei cacciatori, ma non ha calcolato nemmeno lui il costo di quella traversata, anche perché pensa che ogni tanto potrà riposare in quei cunicoli di neve sotto gli immensi abeti. Per di più ha nel tascapane il mazzo di fiammiferi. Si potrà sempre accendere un fuoco, fare una fiammata. Non ha dubbi, è valido, robusto, assuefatto al rischio; la natura si vince sempre. Ecco ora, a distanza dei miei trascorsi sessant'anni mi è riuscito di ritrovare quelle righe che allora, ma in un pensiero assai vago, mi si stavano sornionamente riaffacciando. Potrebbe finire cosi?
Ho riletto, di quel testo, il passo che mi veniva alla mente, un po' per caso, un po' per antimalefizio. Eccolo: Ma prima ancora che (il cacciatore) avesse tagliato le stringhe accadde il fattaccio. Fu colpa sua, o piuttosto la conseguenza di tornare indietro. E fu a questo punto che venne a me l'idea di trovare una digressione impossibile. A lato del sentiero il torrente che dava nome al vallone, la Cia, scorreva precipitando a valle con le sue acque; il loro mormorio leggero sembrava quasi irridere alle nostre intimità, scherzare con quella lotta impossibile. E l'idea matta prendeva piede. Accostiamoci al torrente, lungo il percorso ci sono sassi ma non ci sarà neve, ci sarà sempre modo di avanzare; a mano a mano che si scende ci sarà meno neve, meno ghiaccio, ci si potrà muovere più agilmente.
Prova eseguita, in quel silenzio attutito dal solo rumorio monotono e ripetitivo dell'acqua. E di quei due dannati che forse si son cercati la fine. L'idea che se si
fosse rimasti al carcere, e poi magari si fosse riusciti a sfangarla, ritornava un po' ossessiva.
I primi tentativi sembravano darmi ragione, si riusciva ad avanzare, a fare qualche passo, ma lungo la corrente i piccoli massi trascinati dal monte erano bagnati, viscidi, ghiacciati, vi si scivolava sopra continuamente.
Eravamo prigionieri: non si poteva retrocedere, e anche camminare sulle rive sassose era impossibile. Non c'era che rischiare il tutto per tutto, entrare nel modesto greto del torrentello e percorrere il cammino con gambe e piedi totalmente nell'acqua. Ma la temperatura era sotto lo zero, il gelo penetrava nelle ossa dei piedi. Ogni tanto si tornava verso riva e verso il sentiero, per sgranchire le gambe e avere un po' di sollievo a quel gelo che attanagliava. E si andava avanti.
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MORIRE IMPRIGIONATI A SOTTOZERO?
Siamo fermi sull'argine del torrente da qualche minuto. Ognuno fa le sue riflessioni. A me viene spontaneo pensare a un momento di ?ne, sul tipo del cacciatore del Klondike. Mi accorgo che il mio compagno sta "perdendo quota”. Se mi fermo io, si ferma anche lui. Tento ancora l'impossibile, altri dieci quindici minuti giù nell'acqua gelata; si avanza, quando si può, afferrando i rami sporgenti; a mano a mano che si scende sembra tuttavia che la coltre di neve e lastroni gelati si riducano; forse siamo arrivati più in basso, dove il ghiaccio invernale ha cominciato a stemperarsi; in fondo non siamo a gennaio, ma a fine marzo, anche se abbiamo superato la forcella dei 2016 metri di altezza delle cinque Croci. Passa un altro quarto d'ora sempre camminando, o contorcendosi, con i piedi nell'acqua diaccia; ma sul lato destro, in uno spiazzetto senza pendenza, ritroviamo la mulattiera, adesso solo coperta da un sottile strato di neve; ci si butta sulla stessa a capofitto già si intravede un fondo valle, non facilmente separabile dal resto del profilo, in fondo la val Cia non è se non una grande curva valliva. Il suo punto terminale è proprio quel rifugio delle Refavaie che appare come la miracolosa ancor possibile salvezza. È mezzanotte o più? Non abbiamo il senso di tempo.
Quando bussiamo alla porta di legno, una donna anziana si affaccia, cosa venite a fare? Lo so, siete partigiani forse quelli del Tesino (allude al gruppo del Gherlenda, con i tedeschi avevano già avuto scontri), ma guardate, i tedeschi sono passati qui ieri sera, non è aria per voi.
Se siete partigiani e non avete documenti in regola è meglio ve ne andiate al più presto.
Otteniamo un breve rinvio, un caffè alla cicoria, un paio di grappini e forse, quando dal piano soprastante scende il marito, un giaciglio per la notte. Ho ottenuto alla fine un certo risultato quando mostro il pallore quasi terreo del mio compagno e racconto dell'incredibile discesa lungo la Cia. Dormire? Asciugare le gambe e stendersi è il massimo in quelle condizioni.
Il risveglio è brusco, la mattina seguente. Il mio compagno riposa ancora su un pagliericcio riempito di foglie di granoturco, sotto coperte rimediate alla bell'e meglio. Mentre Valerio sembra già in preda alla febbre io sto abbastanza bene, ho resistito a quell'inferno. Ora si tratta di uscirne. Ma che i due amici partiti in bicicletta dal Borgo arrivino è solo una bella speranza. E se hanno trovato quelli che oggi gli americani in Iraq hanno battezzato check points? Ma la stretta del Tombion, Primolano, la val di Fastro, il passo feltrino della Fenadora e la valle di Fonzaso e Cortelle sono terre del Gauleiter dell'Alpenvorland, Franz Hofer. Chi si muove all'interno con documenti di identità trentina può farcela senza rischiare pesanti intercettazioni per interrogatori.
Gli scontri del settembre precedente tra i tedeschi (con i loro soldatini freschi del Trentino, reclutati obbligatoriamente dal CST, il corpo di sicurezza trentino che doveva solo "mantenere ordine e sicurezza") mostrano che ormai neppure la provincia di con?ne avrà tregua, che il falso idillio con gli occupanti è arrivato alla stretta finale. Anche qui, come nel resto d'Italia occupata, si rischiano scontri, rappresaglie, stermini. Per fortuna è andata meglio. L'episodio del Gherlenda si è chiuso presto, le stragi del Tesino sono state solo un episodio locale, non hanno dato fuoco alle cataste di legna pronte per ardere. Delle tre parti del nord occupate, il Trentino Tirolo, il Bellunese, la Küstenland triestino friulano, solo la prima ha avuto sorte meno tragica. Almeno nel confronto con le altre stragi.
Dai due conduttori del rifugio otteniamo una dilazione. Partite prima del pomeriggio, non si sa mai quando quelli arrivano. Qui va e viene gente che loro chiamano banditi. Dttengo un termometro, una bevanda calda per Valerio, ora si tratta di aspettare quelli di Borgo. Arriveranno? Mentre trascrivo (dicembre 2004 - gennaio 2005) penso che oggi ci sarebbero i telefonini. Ma se fossimo in situazioni di quel tipo servirebbero a salvarsi o a far identificare il rifugio dei banditi?
DUE BICICLETTE, QUATTRO PASSEGGERI
Alle 11 e mezzo, puntualmente arrivano due ciclisti. Sono Archimede Fiorese e Carlo Ferrari, i soccorritori che aspettiamo. Non abbiamo gran tempo per scambiarci le idee, raccontano solo della mobilitazione della gendarmeria di Borgo, alla ricerca degli evasi; anche Valerio ora è considerato tale. Due parole, brevi messaggi, i due amici partono lasciandoci in eredità una bicicletta, la mia vecchia Legnano. Li vedo già sfilare rapidamente verso il ponte sul torrentone che scende dalla Valsorda di Caoria e che sfocia nella Cia-Vanoi. Di li a poco saranno già a Caoria. Subito dopo ci muoviamo anche noi.
Valerio è febbricitante, ma mi pare che ce la possa fare.
L'idea sarebbe di arrivare al bivio di Canal San Bovo e qui sperare di imbarcarsi su un qualche mezzo ancora funzionante, un pur vago trabiccolo che ci sbarchi nel bellunese. A Belluno ho degli indirizzi sicuri; se ci arriviamo penseremo a ricoverare Valerio presso qualche medico in odor di clandestinità. Temo proprio che la polmonite sia la possibile conseguenza di quella notte senza fuochi.
Poi cambio idea, visto che fino a Canale la cosa è andata abbastanza bene, perché non raggiungere Fonzaso, all'estremità della valle del Vanoi, che a questo punto prende il nome di Val Cortelle? l.'idea di Fonzaso viene casualmente alla mente; infatti ricordo che, qualche giorno prima dell'arresto, avevo saputo dell'amico Umberto Tomazzoni (fuggito da Rovereto dove i tedeschi lo ricercavano e riparato a Belluno presso il cognato Bonvicini) che questi era anche commissario (i sindaci erano stati aboliti dai tedeschi) per il comune feltrino di Fonzaso. Un incontro in municipio, un aiuto a munirsi di documenti fittizi forse poteva anche essere una soluzione possibile. Le cose poi andarono meglio di quanto non avessi sperato; ma vado con ordine. Qui entriamo in uno di quei grovigli incredibili che mettono insieme, in tempo di guerra, bombe, aerei, spie, banditi e partigiani; il tutto sulla testa, per dirla con Silone, del povero cristiano. Dietro tutti questi giochi complicatissimi che ci coinvolgevano non so (oggi almeno) se nostro malgrado o meno, certamente c'era il reale protagonista, il fantasma rosso. Per chi, contro chi giocava Stalin? Gli alleati cercavano partigiani solo per lottare contro i tedeschi?
I sovietici favorivano l'emergere delle sacche e delle formazioni della Resistenza per farne, a guerra conclusa, la clava del potere? Dal canto loro i tedeschi non avevano anche loro qualche arma spionistica segreta che potesse, al momento buono, consentire un incontro con gli alleati a spese dei rossi? E la rapidissima presa di potere dei titini iugoslavi, in fondo, non mirava anche, o soprattutto, a impadronirsi delle zone istro-venete, del Friuli, del Triestino, per arrivare quasi al Poi Tutte cose che loro, i massimi livelli, sapevano ma che i miserabili partigiani rivoltosi e ribelli non avrebbero potuto conoscere. Cose che vengono alla mente sessant'anni dopo i fatti.
Come la situazione del Friuli, di Trieste, del Goriziano, anche quella del bellunese nascondeva sotto il fragore degli spari, le rappresaglie tedesche e il cadenzato sfilare dei loro reparti un intricato vespaio di intese e trattative segrete. Il caso del dottor Lauer era di questo tipo. Modesto funzionario di prefettura a Vienna viene catapultato all'incarico di commissario prefetto a Belluno nell'amministrazione Hofer della Alpenvorland; è un fedele del Reich, guida le operazioni antibanditen, non si tira indietro di fronte ad esecuzioni di massa. Ma ha anche le sue piccole intese. Intanto si è scelto come interprete e consigliere commissariale Remo Bonvicini, che a Belluno copre l'incarico di presidente dell'ufficio provinciale del turismo; ha oltre cinquant'anni ed ha fatto a tempo a frequentare l'accademia militare di Vienna e partecipare, in extremis, alla prima guerra mondiale come tenentino di prima nomina (allora il Trentino era austriaco). Certamente per poter fare il consigliere interprete del prefetto austriaco aveva avuto il sottinteso lasciapassare del CLN di Belluno, col quale era in perfetta (sottintesa) intesa. Se posso contattarlo qualcosa ne potrebbe uscire.
Da Canal San Bovo tiro dritto col mio passeggero in canna, tutta in discesa la strada di fondo valle che punta proprio su Fonzaso, dove c'ë il bivio per la valle del Primiero e il Vanoi si getta nel Cismon. Arriviamo verso le due a Fonzaso, cerchiamo un localino, una osteriola o trattoria appartata, fuori paese, per tentare di mettere sotto i denti qualcosa. Non va male. Una cortese servente ci offre pane formaggio e vino. Non ho capito se fosse parente, o qualcosa di più, di quell'Isidoro Giacomin, proprio nativo di Fonzaso che conoscevo bene per il suo nome di battaglia, "Fumo". Era stato il comandante della formazione partigiana "Giorgio Gherlenda": questo personaggio, salvo il nome della formazione che poi fu dato dal Giacomin, non ha, che io sappia, né biografia né storia; certo fu l'artefice del gruppo originario e forse guida e maestro del Giacomin stesso, che volle intestare al suo nome la piccola formazione partigiana sistematasi tra Fonzaso, Lamon e il Tesino. Dopo la morte, in azione contro i tedeschi, nel Gherlenda, Giacomin-Fumo aveva reclutato un discreto numero di ribelli e aveva posto campo sopra Castel Tesino, nell'edificio della diga idroelettrica presso il lago di Costabrunella, nei mesi di luglio - settembre dell'anno 1944. La formazione aveva compiuto discrete operazioni contro le forze di occupazione. E anche qualche prelievo forzato di viveri da sopravvivenza e un "semi volontario" o comunque patteggiato esproprio in alcune sedi bancarie locali di Borgo. Ma un rastrellamento tedesco aveva messo fine al raggruppamento partigiano; il comandante Giacomin-Fumo e i suoi uomini vennero circondati da reparti armati e da reclute trentine del CST; Fumo ed altri compagni caddero sotto tiro avversario. Con la ragazza che ci serve parliamo a lungo di Fumo, gli occhi della ragazza luccicano.
DIGRESSIONE SU “FUMO"
Sì, val la pena interrompere brevemente la narrazione dopo questo incontro con la ragazza di Fumo (ho titolato così, forse ricordando il bel racconto partigiano di Cassola "La ragazza di Bube"). In fondo anche un vago ricordo di Fumo mi accompagnava nella lunga nottata della Val Cia. Ma allora avevo su di lui idee assai imprecise, quali, in parte ho oggi mentre scrivo, nel 2004; sapevo solo di un coinvolgimento con i partigiani e i ribelli del Tesino (lui vi era salito dal suo paese, Fonzaso); sapevo (o credevo di sapere) che era stato ufficiale degli alpini e si era, come dire, sgaroppato le gelate sul Don [in Montenegro]; che poi era stato uno dei primi a entrare nelle formazioni del Grappa e del Feltrino raccolte intorno alla Gramsci. Ma non riuscivo mai ad avere su quella figura dati precisi. Era un Isidoro Giacomin, aveva fatto le scuole magistrali, forse un po' come il De Bortoli di Croce d'Aune, che avevo ricordato in qualche pagina col suo nome di battaglia ”Carducci"; mi sarebbe piaciuto sapere se si conoscevano, certo qualcosa in comune dove-vano avere. Ma non disponevo di altri dati che quelli forniti dagli storici della Resistenza nel Trentino (con modesti episodi di Resistenza per la verità; o forse per fortuna). E nel volumetto degli Editori riuniti "Dizionario della Resistenza", curato da Massimo Rendina, il suo nominativo non figura affatto in quel migliaio di nomi di valorosi resistenti di caduti in azione. Come del resto è ricordato quasi in tralice nelle stesse pagine di storia dei partigiani trentini, dove pure le vicende del Tesino, la rivolta dell'estate 1944, le loro operazioni, un po' alla bravesca se si vuole, hanno trovato spazio nelle cronache sulla Resistenza trentina del Radice, del Vadagnini e di numerosi altri. Ma di lui, Fumo, niente, quasi che quel nome fosse in certo modo simbolico, come se si fosse dissolto in una nube di opacità.
Alle vicende del gruppo guidato da Fumo, che non furono ingenerose né trascurabili, ha dedicato belle pagine Giuseppe Sittoni, pagine che ho riletto in questo natale del 2004. Dove la vicenda della gente di Tesino (rivolta e rappresaglia, resistenza e spietatezza) è assai ben documentata; ma vi si parla di Fumo assai poco e quasi solo per dire del suo arroccamento con una novantina di partigiani sotto il pizzo di Costabrunella, proprio vicino al lago di questo nome presso cui sorgeva la diga idroelettrica. Qui il gruppo di resistenti fu circondato da un robusto reparto di militari tedeschi appoggiato da una formazione di più o meno forzosamente arruola ti trentini nel CST, il corpo di sicurezza originariamente previsto solo per servizi di ordine pubblico. Perché questa assenza di memoria per Fumo? mi sono spesso domandato. Forse perché gli aderenti alla Resistenza formatasi attorno alla Gramsci, alla Garemi, ai gruppi asserragliati sul Cansiglio erano di fede marxista quasi belakuniana? Non per nulla uno dei massimi esponenti, e poi storici, di quelle operazioni aveva preso il nome cospirativo di Bela Kun. Fumo era caduto con le armi in pugno il 15 settembre 1944 sotto il pizzo di Costabru nella; che in linea d'aria non era poi molto lontano da quel passo delle cinque Croci per cui stavo transitando il 30 marzo dell'anno seguente. In modi diversi, anche la mia sorte poteva essere la stessa. Fumo, fumo, nient'altro che fumo. I partigiani sceglievano tutti nomi un po' strambi; spesso quelli di Tesino assumevano nomi femminili (Renata, Leda ecc.). Ma Fumo non era soltanto un nome di battaglia, era forse il segno dell'inutile assurdità di quella lotta, che pure, dietro tante apparenze di ordine e della meno mediocre sopravvivenza alimentare, era spietata e feroce. Forse però c'erano altri motivi. Il fatto è che lassù, a Costabrunella, non arrivarono mai né missioni né missionari né lanci aerei alleati. Dovettero far tutto da soli, passando spesso per grassatori di negozi, di banche, di privati. E i tedeschi alle calcagna, quasi fossero a casa loro. È un capitolo che mi piacerebbe ricostruire meglio. Chiusa la parentesi. Fumo.
LA SALVEZZA
Alle tre siamo al Municipio, abbiamo fortuna, oggi il commissario ha il suo giorno di trasferta, udienze e lavoro. Verrà tra poco. La spiegazione, al suo arrivo, è rapidissima; ci dice di aspettare che faccia buio e di tornare insieme; capisce anche le condizioni di Valerio. Per fortuna lui, consigliere e interprete del consigliere prefetto, ha a disposizione una bella macchina. Verso le sette di sera ci imbarca e via verso Belluno, lungo la strada di Feltre e Santa Giustina; tre fermate di check point ma a un personaggio che ha quel tipo di passe-partout militari tedeschi non possono dire se non "prosegue", frei. E noi due, rannicchiati in macchina non apriamo bocca.
Poco dopo le otto siamo a Belluno, per me c'è l'ospitalità del dottor Bonvicini e della signora Pia, la sorella di Tomazzoni, per Valerio un posto immediato in ospedale; diagnosi polmonite.
La mattina dopo, sveglia mattutina, una fanciulla con bicicletta (saprò poi che è una staffetta partigiana) viene a prelevarmi, mi porterà al bivacco sopra Puos d'Alpago dove ha la sua sede, in due vecchi casolari ancora in piedi, il comando politico militare della zona bellunese. Sta appena sotto quel monte Toc che, pochi anni dopo, precipitando a valle, ha fatto scavalcare dalle acque la diga di Longarone. C'è anche il capo della missione alleata Tilman con un radiotelegrafista, Pallino, e un ufficiale italiano che funge anche da interprete.
Ed è mio fratello Vittorio. Dell'altro fratello, Bepi, non si hanno notizie; preso in Friuli dai tedeschi finirà vittima nel lager di Flossenburg. Al bivacco resterò fino ai giorni dell'armistizio e della liberazione. La mattina del 25 aprile riparto, sempre in bici, per Trento. La guerra sta per concludersi, non resta che pensare al domani. Val Cia, ghiaccio, Klondike, fuochi accesi e cimitero nella neve sono già un ricordo lontano. Salvo la mia ricostruzione sul computer, che ne ë rimasto?
PASSATO E PRESENTE
Scrivendo queste cose a sessant'anni di distanza metto insieme i vari tasselli del ricordo. I tre giovani cui devo la sopravvivenza sono scomparsi, come lo sono il dottor Remo Bonvicini e Umberto Tomazzoni. E mio fratello Tito, stroncato dall'insulto mentre parlava di quegli anni a giovani che non ne volevano, forse, sentir parlare. Valerio, rimessosi, ha concluso gli studi di economia, si è ritagliato una piccola impresa a Trento e se ne è andato negli anni sessanta. Degli altri due ricordo soprattutto Fiorese. Sia lui che Ferrari erano stati entrambi miei allievi, Fiorese al magistrale di Rovereto nel 1938, Ferrari al Prati di Trento nel 1942. Si erano laureati entrambi, il primo in pedagogia e filosofia, il secondo in lettere.
Archimede Fiorese (già il nome era un presagio) era davvero un personaggio; macinava ragionamenti di filosofia fin nel fondo delle ossa; della realtà circostante invece tutto sembrava sfuggirgli. Mi faceva pensare a personaggi del mondo antico come il famoso Anacarsi Scita o il cinico Diogene che si contentava di vivere nella botte; e che, richiesto dal grande Alessandro su cosa più desiderasse rispondeva che si togliesse al sole, smettendo di fargli ombra. Fu chiamato al servizio militare, rapporto impossibile; prima lo confinarono in infermeria poi lo trasferirono allo psichiatrico.
Ma con i dottori scherzava. Fuori senno sarete voi.
So che nel dopoguerra aveva vinto un concorso per in segnare in scuole della provincia di Bolzano, lo aiutò il suo buon tedesco, col quale poi vinse anche un concorso a direttore didattico in quella provincia autonoma.
Lo presentai al professor Rigobello quando venne a Roma e sostenere il colloquio. Fece il direttore pochi anni, se ne andò quasi di nascosto. Ma credo fosse rimasto sempre chiuso nel suo misterioso rifugio a riflettere, nella sua impossibilità di piegarsi al ruolo realistico della vita. Nell'immediato dopoguerra, anche per insistenza dell'amico professor Corsini, con cui (e con me) aveva condiviso il periodo dei centri scolastici di guerra a Castelnuovo, aderì al partito liberale ed ebbe qualche piccolo incarico; ma non si adattava alla vita politica, e lasciò tutto ben presto.
Quanto al buon Ferrari posso dire lo stesso; ebbe un incarico alla scuola media di Borgo, dove insegnava anche il fratello Giovanni. Se ne andò ancor giovane. E, in mancanza di risposte come quelle che il cinico Diogene propinava ad Alessandro mi chiedo quanto anche noi insegnanti siamo stati responsabili di aver messo addosso ai nostri allievi più labili e vulnerabili quelle idee di fondo sui valori, sulla vita, sul perché, sulle identità. Per poi, in questa lunga partita a scacchi, trovarci che i pezzi sono tutti spariti e noi, con la scacchiera semivuota, siano sopravvissuti alle lune, ai falò, al cosiddetto progresso.
Una capanna bivacco a ridosso dell'Ortigara<
Della «Grande Guerra›› l'Ortigara, assieme al Carso e al Piave, resta come uno dei nomi più evocati ed emblematici.
La furia dei combattimenti che vi imperversarono e che in pochi giorni causarono forse le più alte perdite («la tomba degli alpini››) che si siano veri?cate in una sola battaglia, è certamente la causa principale per cui la sinistra e gloriosa montagna continua ad attirare frotte di visitatori. Per i quali è molto comodo raggiungerla in automobile fin quasi alla vetta percorrendo le agevoli strade dell'altipiano.
Molto diversa è la sorte di chi all'Ortigara sale partendo dalla Valsugana. Il versante nord èl ripidissimo, diruto e selvaggio, ed è percorso da pochi sentieri, qualche volta seriamente esposti, la maggior parte dei quali oltre a tutto va scomparendo. Non è raro il caso che purtroppo vi accadano disgrazie come successe nel 1962 quando due giovani persero la vita sfracellandosi sulle rocce della «Val Bruta››. Ma è proprio il fatto che si tratti di una stupenda e vasta zona di montagna ancora incontaminata che la rende meta di una sempre più ampia cerchia di alpinisti ed escursionisti dal palato ?ne. Tra essi vi sono molti giovani o addirittura giovanissimi, Ed è proprio a questi ultimi che va dato credito di una iniziativa la quale confuta. caso mai ve ne fosse ancora bisogno, certi clichés per cui la gioventù di oggi è condannata in blocco come priva di ideali ed aspirazioni che non siano dettate da irragionevoli infantili ed egoistiche contestazioni. Un gruppo di giovani di Castelnovo ha infatti portato a termine un'impresa ammirevole. Si è già detto che la zona è vasta e per chi non la conosce veramente bene, pericolosa. Ciò era dovuto anche al fatto che mancava qualsiasi posto che offrisse la possibilità di trovare rifugio in caso di emergenza da quando la minuscola malga di Val Caldiera «a quota 1579›› era stata abbandonata ed era andata in rovina. Si trattava di un «baito›› a ridosso del passo dell'Agnela, che oltre a essere utilizzato da qualche pastore di pecore serviva quale posto di bivacco e rifugio per alpinisti e cacciatori.
Al posto del baito il gruppo di giovani decise di costruire una solida, anche se rudimentale, capanna. Il Comune di Castelnovo diede loro il permesso di tagliare il legname occorrente allo scopo. e i pompieri dello stesso luogo misero a disposizione la loro jeep per il trasporto di una parte del materiale verso Cima Ortigara attraverso Marcesine. Per tutto il resto, comprese le spese per il materiale di copertura ecc. ha provveduto il gruppo di giovani di cui si sta parlando. Per alcuni week-end hanno lavorato Sodo, dormendo all'addiaccio, e rinunciando al riposo settimanale, La capanna e ora quasi completa; mancano ancora qualche suppellettile, letti, ecc.
Forse la SAT o qualche altro Ente potrebbero intervenire aiutando chi ha dimostrato di sapersi aiutare. Perché i giovani vogliono che la capanna serva a tutti coloro che al gruppo dell'Ortigara vanno, oltre che per ricordare chi lassù è rimasto per sempre, per ritemprare il corpo e lo spirito.
Vittorio Gozzer
Voci amiche mar 1972
Per documentazione, riportiamo la descrizione de «I dieci comandamenti di Castelnovo» firmata da Giuseppe Gerola, e pubblicata ne «Il nuovo Trentino›› martedì 3 maggio 1921.
Quella che in questi ultimi anni era la sacrestia della parrocchiale di Castelnovo, in origine invece altro non era che la campata absidale della cappella primitiva: un piccolo vano rettangolare, orientato, ma privo della sporgenza semicircolare, coperto di volta gotica a crociera con bei costoloni, e munito di due finestrine archiacute, fra le quali doveva erigersi il vecchio altare. Il piccolo loculo aggiunto a settentrione corrisponde a sua volta all'antica sacrestia.
Mentre la mancanza «del giro absidale non ci consente di rimontare -- nella datazione della chiesa -- molto addietro nei secoli, lo stile architettonico, mantenuto nella sobria parsimonia del gotico primitivo, più che indice di arcaismo ci sembra prodotto di rustica semplicità: per cui saremmo tentati di assegnare la chiesa alla fine del Quattrocento. In quell'epoca stessa l'ingenua mano di un artista nostrano, che amava trattare pittura come la silografia, a soli contorni con delicate compiture di tinte unite, ravvisava le pareti con quegli affreschi che ora la paziente opera del parroco don Malfatti va rimettendo alla luce: solenni figure di evangelisti nella volta e gustosissime scene della vita di s. Leonardo sulle pareti, con rispettivi castighi dichiarativi.
Nel ripristinare l'arcata originale che immetteva in quella chiesetta, fu scoperto l'intonaco della spallatura di sinistra e, vergata in bei caratteri gotici, di diligente fattura, emerse la seguente epigrafe:
Li diese comandamenti
Uno solo Dio tu debi adorare
El suo santo nome vanamente non nominare
Le feste comandate debi santificare
El tuo padre e la madre honorare
Homicidio guarda de non fare
La roba de altri non furare
In nessun modo non fornicare
Falsa testimonianza non dare
La roba de altri non desiderare
La moiere del tuo proximo non cercare.
Ai dieci comandamenti del lato sinistro, corrispondevano forse i sette precetti nel fianco destro, non ancora rimesso in vista. Il breve testo, compilato a guisa di filastrocca, è interessante per noi (a parte lo spostamento, giustamente spiegabile del resto, dell'ultimo comandamento), anche per la firma linguistica in cui è dettato.
I documenti volgari del nostro Trentino dal secolo XIV in poi non sono certo rari. Un primo elenco ne ha offerto Carlo Battisti nell'Archivio trentino del 1904, discutendone al tempo medesimo il valore glottologico. Desiderio Reich lo ha completato nell'annata 1912 dello stesso periodico. E nuovi testi ha dato alle stampe Carlo Teodoro Postingher negli Atti dell'Accademia degli Agiati dell'anno seguente.
Ma in genere i nostri studiosi hanno forse peccato di esagerazione nel considerare quei documenti come testimonianza dei veri dialetti locali, mentre la maggior parte delle volte altro dessi non sono che manifestazioni di quella lingua aulica veneziana che stava allora per così dire di mezzo, letteralmente parlando, fra il latino e il vernacolo. Prima che il dialetto fiorentino, per merito soprattutto dei grandi poeti e prosatori toscani del trecento, si affermasse come lingua letteraria italiana, nessun altro volgare era ammesso nell'uso scritto fra noi all'infuori di quella lingua veneta la quale teneva incontrastato il campo delle cancellerie curiali del dominio della Serenissima, «dalla Lombardia fino alle Romagne, dalle Alpi ai lontani possedimenti d'Oltremare. I Che presso le popolazioni rozze e ignoranti di allora una tale lingua, fluttuante essa stessa nell'uso, abbandonata all'arbitrio del volgo, e tanto simile d'altra parte ai singoli vernacoli della regione veneta, potesse trasformarsi nell'uso comune fino ad accogliere in notevole abbondanza vocaboli, frasi, desinenze e costruzioni tutte proprie dei dialetti strettamente locali, è cosa troppo ovvia ad immaginarsi, quando si pensi che lo stesso fenomeno di intrusione di termini vernacoli avveniva pure di fronte al latino, il quale continuava ad essere governato da leggi grammaticali, generalmente studiate a misura della maggiore o minore immissione degli elementi indigeni nel paese, tale lingua accentuava più o meno il suo carattere vernacolo: ma il substrato era pur sempre costituito da quel parlare veneto, al quale soltanto consideravasi autorizzato a ricorrere per la scrittura, chi non avesse voluto usare della lingua latina.
Chi rilegga i più vecchi fra i nostri testi vernacoli veri e propri, che pur non risalgono più indietro del Settecento, come i componimenti di Giuseppe Felice Givanni, di Iacopo Turrati o di Carlo Sieli, si meraviglierà a riscontrare un abisso fra quel dialetto ed il nostro parlare d'oggigiorno, sia veneto sia toscano. E come è ragionevole credere che un tale divario fosse ben più accentuato ancora nei secoli più remoti, laddove viceversa tutti quei vecchi componimenti non si distaccavano gran fatto dagli altri testi coevi delle regioni finitime, è d'uopo ammettere che i pretesi saggi dell'antico vernacolo trentino altro non siano il più delle volte che semplici prodotti del consueto volgare veneziano, più o meno inquinato da idiotismi locali, attraverso ai quali solo per faticoso processo di studio è lecito ricostruire --- e solo in parte --- l'eloquio dei nostri proavi.
Ma il piccolo documento di Castelnuovo non rientra neppure in questa categoria. Siamo già in epoca avanzata, in ci il dialetto veneto cede al toscano e la cosiddetta lingua letteraria italiana si impone dovunque. E il buon curato, nell'iculcare ai suoi fedele i comandamenti di Dio, aveva creduto bene di cedere alla moda novella, anche se qualche parola tradisce un nostalgico ricordo delle forme dialettali venete, che nella Valsugana erano del resto di buon diritto in casa propria.
Grazie ad una segnalazione del professor Rasmo, oggi sappiamo che gli affreschi sono opera di Corrado Waider da Wtrubing, abitante a Bolzano, e morto nel 1515.
Dalla raccolta di don Armando Costa
Voci Amiche set 1983
Da quando, giovedì 19 gennaio, il negozio in piazza è stato riaperto come filiale della Famiglia Cooperativa, la vendita dei generi alimentari a Castelnuovo è divenuta monopolio di un'unica azienda. Un'azienda, però, ben divisa dalle ordinarie imprese private.
La Famiglia Cooperativa, infatti, è un organismo sociale, che, pur esercitando un'attività economica, non si propone scopi di lucro, ma affonda le sue origini nell'esistenza di tutelare i bisogni di una comunità in base allo spirito della cooperazione, dell'unione, della fedeltà, secondo i principi - espressamente dichiarati nello Statuto - della solidarietà cristiana.
La storia della Cooperativa non è mai stata fatta e meriterebbe certo più di qualche appunto; ma corre, fondamentalmente, parallela alla storia del nostro paese in questo secolo. Fondata nel marzo del 1900, la Cooperativa costituisce senz'altro una delle associazioni basate sul volontariato di più antica data. Don Malfatti, nel suo diario, scrive che nel 1920 essa aveva due spacci: uno in cima al paese e uno sulla piazza comunale. Fra i vari presidenti succedutisi, ci è possibile segnalare i seguenti: Dalceggio Beniamino (1924), Tullio Longo (dal 1926), Brendolise Augusto (1956), Coradello Armenio (dal 1957), Denicolò Angelo (dal 1961), Andriollo Ciro (dal 1973 e tuttora in carica).
La sede centrale è da molto tempo in via Trento, 15. Il negozio, che inizialmente occupava solo una parte del fabbricato, è stato successivamente ristrutturato (1967), ampliato (1976), riadattato e riattrezzato con nuove scaffalature (1987, 1988). Ora, come si diceva, è stato preso in affitto il negozio in piazza, solennemente inaugurato domenica 29 gennaio.
Nel discorso tenuto in palestra, davanti a un folto pubblico, il presidente Ciro Andriolllo puntualizzava la caratterizzazione sociale della Cooperativa, patrimonio comune. L'organizzazione dell'azienda, infatti, è improntata sulla più ampia partecipazione: fondamento della società sono i soci (attualmente 92), la cui responsabilità è limitata alla quota versata per l'iscrizione, un importo puramente formale: lire 1.500. Praticamente chiunque può farsi socio, anche se l'impegno che si sottoscrive comporta ben più che un'adesione formale: la volontà di collaborare al buon andamento della società, con la partecipazione alle assemblee, con il rifornirsi prevalentemente nei negozi della Cooperativa, con una critica corretta e positiva.
L'assemblea dei soci, poi, delega il Consiglio di Amministrazione, affiancato dal Collegio Sindacale, all'ordinaria amministrazione. I membri di questi organismi vengono eletti ogni tre anni, a rotazione. Sono ora in carica nel Consiglio di Amministrazione: Andriollo Ciro (presidente), Brendolise Giorgio, Coradello Luigino, Epiboli Carmino, Guazzi Saulo, Stefani Attilio, Zortea Aldo. Del Collegio Sindacale fanno parte: Denicolò Paolo (caposindaco), Andriollo Maurizio, Bizzotto Antonio, Denicolò Bruno, Vivian Dino.
La Cooperativa di Castelnovo è, oggi, una società in forte espansione, grazie anche al dinamismo dell'intraprendente gerente Albino Ghilardi. Il bilancio del 1988 ha chiuso con un fatturato di oltre seicento milioni e si prevede, per l'anno in corso, di superare il miliardo di incassi. Tuttavia gli avanzi di gestione, decurtati dalla grossa incidenza delle spese per il personale, servono in gran parte a coprire i debiti assunti per gli investimenti negli ultimi anni; l'utile rimanente viene in parte ristornato fra soci e clienti con l'assegnazione di buoni spesa, in parte accantonato a fondo di riserva.
Con l'apertura della filiale, la clientela della Cooperativa si è estesa a quasi tutte le famiglie del paese; anche chi non prova particolari simpatie per la gestione unificata, difficilmente si sottrae alla comodità della spesa in paese.
Anche il cliente, però, ha le sue lamentele, spesso giustificate. Anzitutto vorrebbe i prezzi sempre competitivi o, per lo meno, senza esagerate differenze rispetto a quelle di esercizi limitrofi; la Cooperativa può opporre che non è il singolo prodotto che va considerato, ma il paniere complessivo della spesa; inoltre le offerte speciali, con cadenza mensile, non temono concorrenza; ma si consideri anche l'esclusiva possibilità di acquistare a credito, specie per le frazioni, e, in?ne lo sconto per le spese di un certo importo. Certo, anche sul fronte dei prezzi, la Cooperativa può contenere ancor di più il ricarico, quanto maggiore è il giro d'affari: e quindi una clientela più numerosa e affezionata è in definitiva, una clientela che assicura un maggior risparmio.
Le lagnanze degli acquirenti si riversano talvolta anche sul personale, che si vorrebbe
sempre prontissimo alle esigenze del cliente.
Occorre tuttavia comprendere che soprattutto chi è alle prime armi ha bisogno di tempo e di esperienza per «farsi le ossa», e che anche l'attività del commesso è un mestiere non
sempre facile, e che comporta tanti piccoli accorgimenti e adattamenti nei rapporti con il pubblico.
Una strada, dunque, quella della Cooperativa, non senza difficoltà; una strada che, peraltro, coinvolge tutto il paese e che può aprire a nuove prospettive se gli utenti aderiscono con continuità. E se un domani, forte del mercato attuale, la Cooperativa potrà puntare all'apertura di nuovi punti vendita per settori merceologici diversi dall'alimentare, creando nuovi posti di lavoro e nuove opportunità per i consumatori, nessuno può negare che a beneficiarne saranno tutti quanti.
Voci Amiche Feb. 1989
Una mattina, di pochi giorni fa mi svegliai alle cinque con una grande gioia in cuore. Avevo sognato Gino, il postino, tutto vestito a gran festa - come non lo vidi mai in vita - ben petti- nato, ben portante, tanto gioioso e felice. Camminava assai svelto lungo una bellissima strada deserta d'una grande spaziosa città. Dalla finestra della mia stanza lo vidi e a gran voce lo chiamai per tre volte. Alzò il capo, mi saluto con la mano e corse festoso verso di me per dirmi quant'era felice.
Fu un sogno, ma mi lasciò in cuore tanta pace ed allegria.
Oh, com'è duro calle lo scendere e il salir per l'altrui scale! E questo ritornello se lo poteva cantare e ripetere tutto il giorno il buon postino, che ormai riposa da parecchi anni nelle braccia del Padre divino.
Uomo di bassa statura, dall'incedere svelto e sicuro.
Da quando lo conobbi portava sempre una umile casacca, che, come la poesia di Valentino
del Pascoli, «non mutasti mai da quel dì››. I capelli neri e poi brizzolati sembravano spesso ribelli e talvolta scendevano capricciosi sulla fronte non sempre serena. Ma c'era qualcosa nel suo volto che faceva contrasto a tutto il suo dimesso sembiante.
Erano gli occhi: tanto belli e penetranti. Quanti sentimenti esprimevano! Quando porgeva la lettera, forse attesa da molto tempo, sembrava gioire e il suo gesto aveva qualcosa di religioso.
Gli piaceva assai la musica e mentre camminava per strade campestri, fischiettava sommessa qualche pezzo d'opera che più amava. Alla sera stanco dopo aver salito e sceso molte scale si raccoglieva tra i cantori per preparare e dirigere i diversi pezzi canori, le laudi sacre per le grandi festività religiose. Oh, se avesse potuto studiare, certo la sua vita si sarebbe svolta in altro senso, e il suo spirito eletto, si sarebbe innalzato a migliori traguardi. Ma non sempre certe virtù si possono esplicare; ironia della sorte?
Ora, dopo molte amarezze e fatiche, il suo spirito continua a cantare insieme agli spiriti celesti le dolci melodie al suo Signore, che penetra nei cuori degli uomini e sa ricompensare a dovizia chi per Lui offre, soffre e spera.
Ed ora per concludere: un grazie di cuore per tutta la tua opera di bene, Gino carissimo, un grazie doveroso credo da parte di tutti che beneficiarono della tua attività.
Il grazie è poca cosa, è un'inezia, ma è come un raggio di sole che l'uomo porta con sé nel grigiore della giornata faticosa. E l'uomo più ci pane ha bisogno di sole.
A. Coradello
Voci Amiche Ott. 1989
Non vedremo già Giulio per le strade del paese avanzare con il capo spinto in avanti, la cinghia legare più la camicia che non i calzoni, e questi ammucchiati sulle scarpe.
Giulio: già il nome da solo lo distingueva tra tutti gli abitanti del paese, perché tutti lo conoscevano, come conoscono un vicino o un amico.
Quanti carri scaricò per un bicchier di vino, quanti trasporti curò per conto terzi al mercato del Borgo e sempre per una ricompensa misera, quanti morti adagiò nell'ultima dimora!
La scomparsa di persone come Giulio fa pensare. Ci sono uomini che vivono nell'autentica e giornaliera povertà: non la povertà di spirito come distacco ideale dalle cose del mondo, non la povertà dei filoso? fatta di ragionamenti complicati, ma la povertà del pane e del companatico; non poveri d'ingegno, eppure al limite della dignità umana; cercati dalla gente per quanto conviene e poi scartati, se non scherniti. Sono i «Giulio››, i «Nato››, i «Camillo Troian››, i «Beppi Monco›› e altri, Hanno poco posto nella considerazione delle persone che «valgono di più».
Ma per loro tornano alla mente le parole di Gesù: «Beati i poveri, beati gli afflitti, beati i mansueti, beati gli affamati. . .›› Più afflitto, più mansueto, più affamato di Giulio, dove si trova? E allora, se crediamo vere le parole delle beatitudini, è anche probabile che nel giorno del rendiconto ?nale questi «Giulio››, vissuti senza storia, senza lasciare traccia sensibile del loro passato, saranno davanti a noi nel regno eterno.
CLAUDIO DENICOLO'
Voci Amiche giu 1976
Che resta nelle celebrazioni patronali dell'entusiasmo p-o-polare di un tempo? Ben poco, sembra, da quando il progresso fa stimare libertà il fuggire dall'ambiente, il vagare su quattro ruote in luoghi poco noti fino a quando il calar della sera non ci richiama al
paese.
Ma gli uomini del passato, i genitori, i nonni, quanti ci precedettero nelle nostre case, non intendevano ,la sagra alla maniera nostra; la festa patronale era per loro un momento atteso nel corso dell'anno e come tale si doveva vivere con partecipazione gioiosa di tutti. Santa Margherita e san Leonardo serbavano sempre, anche nel volgere di tempo, qualche nota particolare, degna di richiamo nelle conversazioni tra amici. Ciò tanto più che a Castelnovo le solennità dei patroni non si improvvisavano: tutto si svolgeva con maestria e perizia. E nell'ideale comitato promotore delle celebrazioni emergevano, come elementi indispensabili e qualilicati, i campanari, i maestri del << batòcio ››, cui era conferito il compito di awertire la popolazione e la valle intera della sagra imminente e di accompagnare poi le celebrazioni con un giro allegro di campane a festa.
Gli esperti del « campano >› erano - lo san tutti - Luigi Bombasaro (coadiuvato dal nipote Antonio), meglio conosciuto in paese col nome di Gigi Poro per via del cavallo, socio in affari nel trasport-o della segatura, Bepi Troian, sotto la direzione del sacrestano Nardetto e con la partecipazione esterna di Abramo Demonte (Bramo Pegola) che della compagnia era l'indiscusso regista, avendo egli meditato sulle più moderne tecniche del « campano ›› durante il suo lungo peregrinare all'estero come minatore.
Non superbia, ma amor di verità ci induce a dire che, negli anni cui facciamo riferimento, 1 maestri del « batòcio» di Castelnovo facevano scuola in tutta la valle e singolare era la stima che in paese e fuori veniva loro tributata con consenso unanime. Tant'è che, come nella favola del flauto magico, alla dolce melodia del piífero tutti i topi abbandonarono la città, così una folla di ragazzini seguiva i campanari lungo la << reda ›› al momento del campanò. Ma la corsa si fermava alla sacrestia; inesorabilmente la porta del « camaròto ›› si chiudeva, perché, nell'isolamento, i campanari offrissero al paese il loro concerto. Era un concerto classico, che si muoveva fondamentalmente con tre motivi su quattro note: re, si, la, sol.
La distribuzione delle campane nella torre permetteva di assegnare il campanone anche a un principiante, a un aspirante campanaro, purché sensibile d'orecchio e pronto di mano; le altre invece erano affidate a consumati campanari, che dal tocco del << batòcio ›› sulla corona della campana sapevano trarre ogni più lieve effetto, L'esecuzione si commentava alla fine con un'indagine critica al tavolo della osteria, all'Enal o al Vapore. Qui, nei locali pubblici, si faceva ascoltare con voce autorevole Abramo Demonte. Benché evitasse di salire le scalette del campanile, egli tendeva l'orecchio ai tocchi delle campane, coglieva ogni incertezza, e richiamava, dando a ciascuno i suggerimenti del caso, sbriciolando a tutti l'arte del perfetto campanaro.
Abramo non esauriva qui i suoi compiti di regista delle sagre. Stava vicino ai campanari tanto quanto ai cantori, perché teneva in considerazione la corale paesana, anzi, curava di sua volontà le pubbliche relazioni, la pubblicità del coro nei paesi vicini e se ventura voleva che incontrasse per via un cantore forestiero, non tardava a uscire la sua frase lapidaria: « Parlar voialtri de... (Scurelle, Strigno, Telve). Se volé 'mparar a cantar, gavé da vigner a Castelnovo ››.
Abramo prestava i suoi servizi come animatore delle feste patronali e che il suo aiuto fosse apprezzato è prova il fatto che abitualmente partecipava, in qualità di invitato, al raduno del coro per la tradizionale « pezzata››. E per Bramo era la ricompensa più gradita.
L'apparato prezioso della nostra chiesa durante la guerra 1914-1918
Rievocazione quasi totale della sommossa del '28 a Castelnovo
Nel clima di " dialogo " o - per prendere a prestito un termine meteorologico -- di " disgelo ", instaurato nel mondo dal Concilio Vaticano e dal buon senso degli uomini politici del nostro tempo, può forse stonare il ricordo di antiche contese e di lotte paesane all'ombra del campanile; nel qual caso il temino che sto svolgendo si dovrebbe seppellire nel profondo di una fossa fra le cose tristi da rievocare ai più.
Va però osserato come sia poco stimato - per i tempi che corrono il mestiere del becchino, lode rinuncioal dialogo, rinvio il disgel alla prossima primavera e mi accingo a narrare, su queste pagine, la epicasi resistenza del popolo di Castelnuovo alla provocazione del Borgo. Correva l'anno di grazia 1928. Annodi grazia ... fa per dire. Da tempo ormai il territorio del Trentino era parte della bella nostra Italia e col novo calendario si viveva il sesto anno della marcia fascista, sotto la conduzione dei duce Mussolini.
Fu appunto il conducente e, qualche membro di governo a disporre che, nel quadro della riforma amministrativa degli enti locali, i comuni più piccoli fossero associati a quelli maggiori. Per la bassa Valsugana, poi l'imbarazzo della scelta tra Borgo e Castelnovo come comune capo1uogo si addivenne a un compromesso proponendo il primo quale capoluogo della valle e come Podestà un cittadino di Castelnovo.
In considerazione di quanto esposto, urgeva accentrare nel comune di Borgo tutte le attività amministrative, che prima si espletavano presso i Municipi locali; ancora, i nati del paesi venivano registrati come abitanti del Borgo e i mobili e gli arredi degli uffici locali venivano traslocati nel capoluogo del mandamento.
A questo punto preme informare l'ignaro lettore che la Parrocchia di Castelnovo possedeva da lungo tempo un apparato di pregevole fattura e di notevole valore. Si apprezzava soprattutto il massiccio piviale, lavorato a mano, con fili d'oro e di seta, vanto e orgoglio di tutto il paese.
La sua origine era sconosciuta, solo si credeva, per quanto era dato sapere che esso tosse stato preda bellica dei soldati francesi al seguito di Napoleone, durante la campagna d'Italia. Alcuni possidenti del paese, al passaggio dell'esercito napoleonico l'avrebbero acquistato, facendone poi dono alla chiesa parrocchiale e fin d'allora sarebbe stato usato nelle occasioni solenni, talché era consuetudine era consuetudine fra il popolo recarsi in chiesa per ammirare il celebrante, rivestito del piviale.
Per la rimanente parte dell'anno, il raro pezzo era custodito al riparo dall'umidità e dalle mire furtive di non pochi bricconi, in un armadio di legno, all'interno del Municipio.
Ora accadde che gli incaricati di Borgo provvedessero, nell'estate del 28, a svuotare il Municipio di quanto si trovava all'interno di esso. E noti parve vero ai dirigenti d'oltre Ceggio di profittare dell'occasione per trasferire colà il prezioso piviale, e in gran segreto studiarono il piano.
Ma era nella aria puzzo d'inganno, e la gente di Castelnovo girava vigile per le strade in attesa di eventi. Già dei volontari s'erano costituiti in pattuglie e andavano di ronda nelle ore della notte, per sventare per tempo ogni assalto imprevisto.
Ed ecco in quel di Borgo un certo D. P. sellare il suo destriero e avviarsi bel bello lungo la statale che porta a Primolano. Era suo proposito soddisfare alla consegna del comune di residenza: scendere a Castelnovo per ritirare col carro un carico in Municipio.
La strada -- si sa -- sale un po' erta fino al torrente e poi corre giù, facile e diritta, fra campi da una parte e prati dall'altra.
Quand'ecco d'improvviso, che mano ignota scioglieva le campane e i batacchi rimbalzavano di qua e di là entro i bronzi a briglie sciolte.
Campana - martello, pericolo imminente e la gente rientrava di gran fretta dalle campagne e dalle fratte con falci, forconi, rastrelli e corpi d'offesa d'ogni genere.
" Quale accoglienza -. pensava l'ingenuo D.P. - per un cittadino del capoluogo che si reca in provincia " e allacciatosi il giubbotto sopra la camicia, faceva ingresso nella piazza del paese.
Sceso dal carro, parcheggiava il veicolo sul lato della fontana e saliva sicuro le scale dl Municipio.
Ma la piazza si andava colmando di contadini urlanti. Il povero D. P. non tardava a capire che la faccenda era seria e lesto si ritirava a fianco della sua cavalcatura. Era nei paraggi un paesano robusto, invalido di guerra ormai da undici anni. " Torna indietro ", ordinava al conducente e afferrate le redini spingeva il cavallo sull'orlo di un fosso; qui con il braccio ancora sano ribaltava il veicolo giù per la rampa.
Nel frattempo le donne del paese sottraevano il piviale dal solito riparo e come prima sistemazione, correndo sù per i " broli ", lo appendevano in una cantina tra alcuni salami e le botti del vino.
L'annuncio della sommossa giungeva celermente al comando di Borgo, dal qua1e partivano un gruppo di militi e il commissario in testa.
Questi arrivato a Castelnovo, chiedeva che fosse sgomberata la gradinata del Municipio e rivolto ai paesani, cercava di rabbonirli come meglio gli riusciva.
Non è giunto allo storico il resoconto stenografico del celebre discorso, comunque si sa, per conferma di testimoni che il commissario si esprimeva all'incirca così: " Cittadini di Castelnovo. tornate alle vostre case! Vi posso garantire che e è nostra intenzione prelevare il piviale solo per allogarlo in luogo più sicuro. e anche più confacente al suo valore storico e artistico. Il piviale resta vostro e nessuno ve lo toglie. Tornate alle vostre occupazioni e abbiate fiducia in me ".
Sulla porta del Municipio s'era puntata una piccola donna dallo scioglilinguaggiolo facile, chiamava " Taresota ", la quale, brandendo un grosso roncone sopra la testa, minacciava seri guai chiunque avesse osato oltrepassare la soglia. E il fratello di lei tale Tita Pierin, ascoltato il discorso del commissario, replicava: " el parla ben lu sior, ma da noe ghe 'n proverbio che el dir: "quando el bò l'è fora de stala coreghe drio " . . . ". Aveva un bel daffare lo zelante milite per far capire ai paesani le sue ragioni; finché, visti inutili i tentativi di pacificazione, dava ordine al suo seguito di risalire sugli automezzi e di rientrare in caserma.
Verso sera compariva sul ponte del +Ceggio anche il povero D. P. Montava avvilito sul bordo del carro; il malconcio ronzino tirava il tutto, guadagnando a poco a poco la porta della stalla.
HISTORICUS
D
"Voci Amiche", Genn. 1970
Nota della redazione
Abbiamo notizia che sono state mosse obiezioni, anche fuori paese, sulla verità dei fatti riferiti in un precedente articolo in merito alla sommossa del '28 per il piviale.
Precisiamo che l'articolo venne steso dopo aver consultato i documenti delle Biblioteche Vaticane e dell'Istituto di Storia italiana dell'Università di Bologna. Eventuali lacune sono dovute al rifiuto del Governo polacco di concederci il visto d'ingresso agli archivi dell'Università di Cracovia, dove sono custoditi i documenti più interessanti.
Il telefono squilla, e la voce d'un mio ex alunno, laureato e addetto al Credito Italiano d'una grande città, mi invita gentilmente a preparare un articolo riguardante i grandi pregi del defuntoarciprete decano di Strigno.
Subito alla memoria m'apparve la dolce e cara immagine paterna di quel sacerdote: don
Antonio Coradello, di umile famiglia e modesta, nacque a Castelnovo nel lontano 1877. Fu cooperatore a Canal s. Bovo, a Castel Tesino e parroco a Spera per trentasei anni. Fu eletto decano di Strigno ove rimase fino alla morte avvenuta il 22 gennaio 1951.
Quali i suoi preziosi meriti?
Oh certo, solo il Signore li conosce nella sua integrità e purezza.
Tuttavia, il ricordo di codesto sacerdote a distanza di molti anni, è indice che Egli lasciò una scia luminosa che il tempo non può cancellare.
Gli uomini passano, ma restano le orme del loro passaggio terreno.
Il buon seme sparso con abbondanza, con tanta bontà e sacrificio è caduto forse in parte tra i rovi e la seccura, ma tanto cadde pure fra braccia tese e ansiose che l'accolsero.
Rivedo ancora la sua alta figura, ben portante, dal passo svelto e deciso, avanzare nella chiesa di Castelnovo in qualche grande occasione, a porgere ai fedeli la parola di Dio, con arte semplice e convincente, con entusiasmo e profondità di pensiero.
Le sue mani erano sempre bucate, perché la carità, sotto ogni aspetto, l'attendeva a prodigarsi con spirito davvero evangelico. Alla sua morte non fu trovata una lira. I poveri erano i suoi predilettiz per essi soffriva ed offriva.
Ricordo che nominare don Antonio, era come parlare d'una persona insigne, ma nello stesso tempo d'una persona dal cuore aperto, leale, a cui accedere con fiducia e certi d'ottenere aiuto, conforto e pace.
Oh quelle mani benedette che si alzavano in segno benedicente sopra il capo dei suoi penitenti implorando il perdono di tante colpe!
Ora presso il trono divino saranno ancora tese ad implorare per l'umanità sconvolta e smarrita in tanto buio, perdono e misericordia da Colui ch'è il sommo sacerdote e l'unico nostro bene.
Certo, il sacerdote, di solito, diceva il Vescovo Montalbetti, si forma sulle ginocchia materne. I buoni esempi dei genitori; le sagge parole di una mamma; le particolari cure per far conoscere al fanciullo la sublimità della vocazione; le tante piccole attenzioni, perché possa aprirsi al sole divino, la innocente vita del bambino, tutto l'aiuta a vedere, a comprendere, a scegliere a tempo opportuno la sua via.
Accanto a questo, in modo particolare dev'esserci la preghiera al Signore, e forse anche la offerta della propria vita.
Se i genitori comprendessero quanto valore ha nel mondo il sacerdote, farebbero molto di più per dare a Dio qualche loro figliuolo nel campo sacerdotale o religioso.
Il sacerdote è il vero benefattore dell'umanità, e la storia non smentisce questa tesi.
Finché il sole spunterà all'orizzonte ogni minuto secondo s'innalzano al cielo quattro divine elevazioni implorando misericordia, luce e pace su tutti gli uomini d'ogni colore, buoni o malvagi, credenti e non.
Le braccia del divin Crocifisso, mentre il sacerdote innalza l'ostia santa, invocano dal Padre benedizione e salvezza.
Don Antonio Coradello volle essere sepolto accanto alla Cappella della Madonna Lauretana nel cimitero di Strigno, ove tutt'ora e meta di visitatori che implorano grazie e depongono fiori e luci.
Questo suo desiderio indica pure la grande devozione che il sacerdote nutriva alla Vergine e la gioia di sentirsi ancora vicino ai suoi parrocchiani tanto amati.
15 febbraio 1981
Firmato: Dorotea
Voci Amiche marzo 1981
Ripristino del cimitero Austro-Ungarico
Domenica 13 agosto 1995 con una messa da campo celebrato da don Tonno e da don Scarrn, con la presenza del coro Valbronzale ed un nutrito stuolo di rappresentanze civili, militari e d'arma ed una nutrita rappresentanza della Croce Nera Austriaca e di Karserschützen del Tirolo, come la rappresentanza della Croce Nera del Sudtirolo e stato festeggiato il ripristino del piccolo Cimitero Austro-Ungarrco a quota 1920, sul versante nord di Cima le Pozze. In esso riposano le spoglie degli eroicr difensori del Maora, che caddero nel giugno del 1917 durante l'offensiva del regio esercito italiano. Nel cimitero ci sono 27 tombe, alcune comuni, il tempo ha cancellato i loro nomi, una croce li accomuna e li differenzia.
I lavori di restauro di questo cimitero sono stati eseguiti dagli amici dell'associazione “Zima Castelnovo”, che in due lunghi anni di lavoro, hanno dato al cimitero l'aspetto attuale ed il monumento, che era nel frattempo franato, è stato restaurato come era all'origine.
Alla cerimonia hanno partecipato i dott. Grand, quale presidente del Consiglio Regronale Trentino Sudtirolo, il signor Moser in rappresentanza del Consiglio Provinciale, il dott. Dalsasso come presidente del C.3, il sindaco della comunità di Castelnuovo rag. Dalceggio, i rappresentanti d'arma, alpini, paracadutisti carabinieri in congedo e circa 350 persone giunte quassù con l'elicottero o a piedi.
Fra i 40 ospiti austriaci quelli della Croce Nera Austriaca, il presidenti del Sahsburghese il sig. Oberst della riserva Kastner, ex presidente della dieta del Sarsburghese dott.
Vogl ed in rappresentanza della Croce Nera Austriaca il presidente dell'Austria Alta il
Major Susteri che ha tenuto un breve discorso ed ha decorato otto persone di Castelnuovo per l'impegno dimostrato nel restauro del cimitero con la “Croce al merito con nastro”, il gruppo in divisa der Karserschützen del Tirolo, venuti appositamente e la rappresentanza del l'artiglieria di Wels.
La giornata si è conclusa con il pranzo al Baito dell'Aia al quale hanno partecipato tutte le autorità e più di 250 ospiti. Il pranzo è stato offerto dall'associazione Zima Casternovo. Verso sera gli ospiti si sono avviati contenti verso Valle, a piedi o con
l'elicottero.
È stata per molti una giornata indimenticabili.
La Maria alla soglia dei cento anni
Non c'è Castelnovato che, vista per strada la Maria Denicolò (Tonaza ), non abbia avuto
espressioni «di meraviglia per l'insolita vitalità della paesana quasi centenaria. E giovedì 14 agosto, la Maria ha compiuto 99 anni.
Ecco l'intervista che abbiamo potuto raccogliere in esclusiva per « Voci Amiche ››:
-- Maria, come aveo pasà el dì del compleano?
-- L'ò pasà ben; ghera sempre zente, parenti da Scurele e vizini. Son dà dai Cepinati a
disnar, che i è vegnù a torme. Ala sera son da 'n'oreta do a la bancheta del capitelo co
la Giazinta, so sorela e Bepi.
-- 'Ndè verso 'l secolo. Come ela sta la vostra vita?
-- Bisogna che me contente. Son sempre sta ben, ma ò tanto laorà. Son nata tel 1887;
a do, tre ani il popà 'l n'à porta in Brasile (el laorava tei campi de café). Son sta là quatordese ani co la mama, el poppa, quatro sorele e «do fradei (mi ero la più vecia). In Merica non ghera scole, gnanca cese: solo campi. Co semo tornai, ai primi del secolo, 'l popa la compra 'na casa soto la canonica.
Tel sedese semo 'n-dai profughi a Potenza e dopo a Carpeneto Romano. Dopo la guera,
tornai in sù, la casa l'era bombardà. I à dito che bisognava macarla dò par darghe luce a le altre e così semo finì qua. Dopo son dà in Germania a laorar te na fabrica «de pèze. Te la seconda guera erimo su dal Betanini, parché qua ghera pericolo.
-- Cosa bisogna far, Maria, par rivar a cento ani? Magnar tanto o poco?
-- Mi magno fin che go fame. Anca crauti co dentro 'na luganega. La menestra non la me
piase. Adeso magno teghe e zucati, ma me togo anca la carne. Se la è bona, l'è anca 'nbelo magnar polenta e formaí.
-- E col vin?
-- A taola 'na bicera la bevo sempre, dopo magna. Ma basta.
-- E dolzi?
-- Oh! La roba dolze no la me à mai piasesto. Gelati non togo mai.
-- Vizin ai zento ani, come ve sentìo?
-- De salute me contento. Me fa male i pìe. Ghe n'ò ben scarpe, le cambio, ma no conta gnente. Go le man ndormenzae: no podo tacar i botoni. E no ghe vedo gnanca a meter el filo te la ucia. Uh! pal resto me contento.
-- Elo 'n belo, Maria, rivar a zento ani?
-- Mi son contenta. Digo sempre: - Sioreddio giutème e Samuele (me fradelo), giùteme!
A questo punto, la Maria guarda gli appunti presi e «domanda»- Cosa feo de tuto sto scritorio? Oh! mi go idea che 'l paroco 'l vol meterme su da qualche parte, parché 'n dì l'à volesto 'na fotogra.
Crediamo essere fedeli interpreti dei sentimenti di tutto il «paese se porgiamo alla Maria, a nome dei Castelnovati, i più cari auguri per tanti anni ancora; auguri ai quali si aggiunge un pizzico d'invidia per la bella età già. vissuta dalla festeggiata, che certo per noi - portatori di auguri - resterà, di sicuro, un traguardo irraggiungibile. Perché, nel caso della nostra paesana, non stupisce solo il numero di anni accumulati, ma anche la condizione fisica con mente lucida e tanta voglia di vivere.
Ma se ben consideriamo i fatti, la cosa non sorprende oltre misura, vero com'è che la Maria abita nella parte del paese dove più lunga si fa la vita. Ci viene in mente, al riguardo, un'area di mare, verso l'America, chiamata dai naviganti con "É nome sinistro, di "triangolo della morte" per le ripetuta scomparsa in zona di (navi ed aerei con il loro carico umano. Per contro, c'è a Castelnovo il << triangolo della vita ›› costituito da quattro case, più qualche « tèda ››, dove abita gente vicina al secolo: è il fondo del paese, il cui centro «può situarsi attorno al Capitello.
Là sta la Maria, prima di tutti, con i suoi 99 anni; a fianco, abita il fratello Toni (88); più giù c'è Angelo Pallaoro (94), la Lisa Denicolòe (94), Beppi Agostini (85), Maria Lira (85), l'altr'a Maria Denicolò (90) e il fratello Dario (87). E come non ricordare la Celestina Conci, morta a 100 anni compiuti ed Ele e l'Agnese Bombasaro, scomparsi quest'anno a 87 anni ciascuno? E lasciamo perdere i fanciulli tra i 70 e gli 80 anni!
I fatti parlano, e qualcuna, sicuramente cogliendo prima di noi favorevoli circostanze, s'è affrettato a metter su casa nell'area della longevità, tanto che quei campi stanno per divenire la zona residenziale più ricercata,
la, tra Canalretto e Spin,
dove lunga è la vita,
al secolo vicino
CLAUDIO DENICOLO'
I centoquattro anni di Maria Denicolò
I centose ann di nona Maria
Grande festa la vigilia di ferragosto presso la casa di riposo di Borgo per il compleanno di Maria Denicolò. Un compleanno eccezionale e di tutto rispetto, che probabilmente non teme “rivali” nel nostro Trentino' 106 anni. Maria è nata infatti nel lontano 14 agosto del 1887 a Castelnuovo, ma in Valsugana non ha familiari, anche perché lei rimase nubile.
Con i genitori espatriò per il Brasile quando aveva pochi mesi di vita e vi rimase fino a 15 anni lavorando già nella coltivazione del caffè e del tabacco.
Fece poi ritorno in Italia, ma per riespatriare in alcuni paesi d'Europa. Germania, Svizzera ed altri ancora. Maria era figlia maggiore di una famiglia numerosa e anche per questo dovette lavorare fin dalla sua prima infanzia e contribuire al sostentamento dei familiari. Per lunghi anni visse a fianco dell'ultimo fratello, che morì a Castelnuovo quando lei aveva già varcato la soglia dei cento anni.
Poco dopo Maria Denicolò entro nella casa di riposo di Borgo. Era esattamente il 2 settembre 1987. Il carattere dolce, il suo essere sempre paziente e serena hanno fatto di Maria Denicolò il simbolo della nonna di tutto l'istituto. In sei anni di permanenza Maria ha fatto le confidenze della sua vita a tutto il personale che le sta a fianco. Per il giorno del suo compleanno nel parco antistante l'ospizio, i parenti, il presidente Giuseppe Nicoletti, la direttrice Mariella Galvan con tutto il personale dipendente, gli ospiti, gente di Borgo e di Castelnuovo, hanno organizzato una grande festa in onore di Maria per solennizzare questo suo eccezionale traguardo. Brindisi augurali, specialità gastronomiche e musica hanno fatto da cornice alla lieta ricorrenza.
da “L'Adige" 1983
In una settimana in un paese come il nostro ci sono stati ben tre funerali. Il fatto eccezionale è che uno era della nonna della Valsugana, Maria Dcnicolo morta a Borgo il 28 gennaio all'età di 106 anni e 5 mesi. Penso che sia un caso unico a Castelnuovo e nei paesi vicini.
Eravamo tanto abituati a vederla più che centenaria e a godere della sua longevità.
La sua morte lascia un vuoto, oltre che nella casa di riposo, anche a Castelnuovo ove era
nata nel l887.
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Voci Amiche ago-set 1983, mar 1994, 1994
Vivere è bello. Traguardo per pochi quello dei cent'anni d'età. Elisa Vesco, di Spera, l'ha invece raggiunto in scioltezza e tranquillità brindando serena insieme con i figli Aldo e Gina, i nipoti, i parenti il personale e gli amministratori della Casa di riposo «Redenta Floriani›› dove è ospite.
Quinta dei sei figli di Candido Vesco e Anna Trentinaglia, è nata a Spera l'8 novembre
1890. A 15 anni conosce il triste viaggiare dei profughi a Palermo e a Saluzzo.
Va sposa di Antonio Denicolò a Castelnovo il 19 ottobre 1919.
I figli Aldo, classe 1921 e Gina del 1922 vivono rispettivamente a Padova e Milano. Di mamma Elisa ricordano la severità, ma anche la sua capacità di comprendere e di intervenire nei modi e nei momenti opportuni, il rispetto per gli altri, la scrupolosità nell'ordine della casa e, soprattutto, gli insegnamenti di vita che lei voleva sempre fosse presa nel timore di Dio.
«Ci ha insegnato a vivere›› - affermano convinti i figli - i quali, a nome proprio e della mamma, intendono ringraziare tutti i partecipanti, e il personale della Casa di riposo dove, la disponibilità, l'intensità del rapporto umano, il servizio quotidiano danno voglia di vivere.
Momento significativo della festa è stata la celebrazione della santa Messa da parte del parroco di Castelnovo con la partecipazione del rispettivo Coro Concordia, di amici e conoscenti dei paesi di Spera e Castelnovo.
Inaugurazione a Castelnovo del nuovo Gruppo A.N.A.
Domenica 8 aprile scorso, Castelnovo era in festa in maniera particolare, vedevi in ogni dove bozzoli di persone che non erano quelle delle solite domeniche davanti al « Bar Chin ›› o al « Vapore», ma gente anche da altri paesi che erano in attesa fino dalla mattina per l'inaugurazione del nuovo Gruppo A.N.A. e della Fanfara sezionale, che avrebbe reso più solenne e anche avrebbe portato una nota allegra alla cerimonia, stabilita in precedenza con il già noto programma.Voci Amiche giu 1990
Qualche timido canto preparava di già l'atmosfera (alpina s'intende) e qualche buon goto di bianco era stato messo a punto dai primi arrivati.
Alle ore 10 già una gran folla gremiva la bella piazza pavimentata a nuovo e addobbata a festa, si avvitavano le aste ridotte delle bandiere delle Rappresentanze delle Associazioni d'Arma e dei gagliardetti alpini, un plotone di Artiglieri in armi era in ordinata attesa da un lato della piazza, mentre il capogruppo Brandolise e il maresciallo Ziglio si affaccendavano a dare gli ultimi tocchi dei preparativi inerenti alla cerimonia ecco che arrivano le autorità e la tanto attesa Fanfara e tutti in ordinato corteo alla Parrocchiale per la s. Messa, in suffragio dei Caduti di tutte le guerre.
Ofliciava don Spada che al Vangelo presentò al parroco la chiesa, che affollata di gente un po' insolita e di bandiere, gremiva ogni angolo e dava un aspetto diverso da quello di sempre.
Disse, tra 1'altro: « Ecco al suo sguardo, rev.do parroco, qualche cosa d'insolito, uomini che vengono da diverse battaglie, da diverse guerre, legati da un'amicizia incontrata sui campi di battaglia, che però non hanno scordato di essere ancora uniti a rendere grazie al Signore, per l'aiuto loro dato nei momenti difficili del periglio delle battaglie, e per il ricordo doveroso a chi non è più tornato da esse ››.
Dopo l'ufIicio divino il rev.do parroco di Castelnovo benedì la nuova fiamma Alpina e aggiunse: ...« Che sia un simbolo di unione, di pace e che attorno vi possiate unire sempre con amore di fratellanza cristiana ››.
Al monumento dei Caduti, dopo aver il cav. uíf. Pinamonti fatto l'appello dei Mancanti, venne posta la corona d'alloro e i fiori o?ferti dalla gentile Madrina e fra il silenzio del solenne momentole note dell'inno di Mameli facevano semrare ancor vivi gli Assenti e che ci sussurrassero: « Vogliatevi bene, state uniti, siate sempre fratelli». La preghiera dell'alpino che letta dal cons. mand. suscitò in tutti i presenti un momento di particolare sincera commozione, mentre un bel raggio di sole baciava come una mamma lo stele che ricorda gli eroi, quelli che hanno dato di più, senza nulla chiedere, senza nulla avere.
Nella bella piazza inbandierata ove ci tornammo a riunire ringrazio le autorità e i convenuti il molto in gamba capogruppo Onorato Brandolise, il sindaco geom. Sergio Lorenzin, che con generosità, anche a nome dell'amministrazione comunale, per quanto era possibile, promise il suo appoggio per quanto in futuro ci fosse bisogno. Il cons. mand. Pinamonti ebbe parole di circostanza per tutti. Il segretario della Sezione provinciale, generale Dal Fabbro, portò il saluto del presidente Brocai e del Direttivo sezionale e si compiaque al vedere avvicendati senza distinzione artiglieri in armi << boce e veci ›› e guardando su verso l'Ortigara ricordò le penne mozze della grande guerra che là caddero e che appartenevano ai gloriosi Battaglioni e Gruppi del gen. Stringa, che lassù, ove i rododendri d'estate in fiore, con il rosso vivo di essi, assieme al bianco delle pietraie delle cime sconvolte dalle granate degli obici, ove attorno sono rimasti qua e là dei verdi mughi, fa sembrare che il Signore abbia fatto apposta una naturale bandiera per coprire chi cadde in nome di essa.
Allo spaccio allestito con ordinata cura e munito di ogni conforto, graziose signorine e signore servirono un signorile rinfresco mentre tra un bicchiere e 1'altro di generoso bianchetto si susseguirono diversi oratori e il prof. Ognibeni lesse una bellissima poesia scritta in dialetto trentino apposta per la festa alpina di Castelnovo.
Mezzogiorno era ormai vicino, dalla « Marta ›› aspettava il pranzo offerto» alla Fanfara del bravo Patelli e alle autorità più lontane, mentre già si intrecciavano e af?orivano in tutti i presenti i ricordi della vita militare passata e le canzoni venivano tirate fuori senza la prova del la, anche se un po' stonate, ma belle lo stesso.
Dopo pranzo concerto applauditissimo della Fanfara e fino ad ora tarda sana allegria montanara.
Alle autorità presenti tutte, vada il nostro grazie più sentito perché ci hanno onorato con la loro presenza, alla Sezione provinciale per il valido aiuto, a quanti ci hanno visto volentieri.
Un grazie particolare alla Sezione combattenti e reduci che tanto contribuì per la costituzione del nuovo Gruppo ed al suo presidente Chin e nel dirci arrivederci prossimamente a Tezze e ad Agnedo per l'inaugurazione di quei Gruppi, speriamo che anche Scurelle dia segno di spirito alpino, che sappiamo fin d'ora che se si mettono fanno le cose per bene.
Portiamo con noi negli affanni di ogni giorno il ricordo della sana allegria montanara, il profumo delle nostre abetaie, i momenti passati sui pascoli montani in fiore in mezzo ai ranuncoli, e, vedremo di sicuro il cielo più sereno, più radioso il domani.
Voci Amiche gen 1983
Centenario di << nonna Celestina >
Domenica 11 aprile a Castelnovo, nonna Celestina Mozzi ved. Pressingher ha felicemente raggiunto e festeggiato il traguardo del secolo, nella serena intimità della sua famiglia.
Nata a Bobbio in provincia di Piacenza l'11 aprile 1879, si stabilì a Castelnovo nel 1902, per trascorrervi il resto della sua lunga esistenza.
Rimasta vedova del marito Giovanni nel 1948 e mortale l'unica figlia, Maria, nel 1958, ora vive in paese con la nipote Giuseppina e i pronipoti Paolo e Vittorio.
Nonna Celestina, che gode ancora di una salute invidiabile e riesce a leggere senza occhiali ogni settimana il giornale, appartiene a una famigliain cui la longevità non rappresenta certo l'eccezione. Sua madre morì a 105 anni e il padre a 108; la nonna materna invece addirittura a 115.
E qundi ci song fondate speranze di tanti compleanni futuri...
Domenica pomeriggio, gran festa attorno a nonna Celestina. Il parroco don Luigi Dalprà e il nipote della festeggiata don Giovanni Conci, arciprete di Noriglio, al pomeriggio hanno concelebrato una santa Messa in casa della simpatica vecchietta. E dopo, la festa, con la tradizionale torta e un'infinità di auguri da parte di parenti e amici di famiglia, unitamente a quelli delle molte persone che in tanti al1ni hanno avuto modo di conoscerla e di apprezzarne le doti.
La partenza di don Mario Toniatti
Don Mario Toniatti, nostro parroco per quasi dodici anni, ha lasciato Castelnovo per la nuova sede parrocchiale di Roncegno.
Dovendo parlare di lui, si è tentati di scivolare nei discorsi convenzionali, nelle parafrasi retoriche, per il timore di confrontarsi con la opinione della gente o di urtare la sensibilità di colui di cui si parla. Ma, lasciandosi prendere da questi pregiudizi, si finisce col non dire niente, Cercheremo perciò di parlare di lui con la onestà e la sincerità che si può avere verso un amico.
Sono cambiate molte cose nella Chiesa dal gennaio del 1964, quando don Mario fece il suo ingresso a Castelnovo, al settembre di quest'anno, quando ci ha lasciati, Ma il fenomeno più significativo e più carico di conseguenze per il mondo cristiano fu senza dubbio il Concilio. Applicarne gli insegnamenti, diffonderne i contenuti, introdurre nel piccolo della nostra comunità il nuovo spirito ecclesiale, credo sia stato il punto di partenza per don Mario. Impegno non facile: le « novità ›› comportano anche il rischio di non essere comprese da chi ha avuto una formazione tradizionale. Molte persone anziane sono rimaste sconcertate; ma proprio l'ossequio che esse avevano acquisito verso la Chiesa ha loro impedito di allontanarsi da essa. Sono però mancate, di conseguenza, quella vivacità di confronti, quella attenzione agli stimoli spirituali, quella diretta partecipazione alla maturazione della comunità, che potevano fare della Chiesa una forza più viva ed attuale. E i riflessi, amari e carichi di ripensamento, si sono visti sui figli, sui giovani; perché, non c'è dubbio, l'educazione cristiana inizia, prima di tutto, in famiglia. Questa crisi, sarebbe dannoso non riconoscerla, è crisi di tutta la Chiesa; ma riferirla solo a responsabilità altrui sarebbe fare critica distruttiva. La ripresa implica collaborazione: e in questo don Mario ha un merito che non gli si può negare.
Ai giovani egli ha offerto tutta la sua disponibilità. Le iniziative non sono mancate, prime fra tutte quelle dirette dal gruppo dell'oratorio, protagonista di numerosi incontri nell'amicizia e nel divertimento. Dobbiamo ricordare anche molte conferenze - dibattito con i giovani, tenute da sacerdoti qualificati nel settore, chiamati di volta in volta dal parroco.
Altro momento d'incontro: quello con il Consiglio pastorale. Occasione per ricercare assieme (perché non solo il prete, ma tutti costituiamo la Chiesa) la strada per vivere più intensamente l'esperienza cristiana nella vita quotidiana.
Una delle peculiarità più significative del sacerdote è l'annuncio del messaggio evangelico, che si concreta abitualmente nell'omelia della domenica. Don Mario non ha forse le doti del grande predicatore, ma certi suoi richiami non possono essere dimenticati: il significato della s. Messa nella sua interezza e nella partecipazione attiva di tutti, il rispetto di Dio nel linguaggio senza bestemmie, la coerenza del cristiano anche e soprattutto fuori delle porte della chiesa.
Del nostro parroco vogliamo, poi, ricordare l'interessamento agli anziani e agli ammalati; nessuno, penso, può negare la sua presenza e la sua accortezza al letto dei sofferenti.
Non tutti, certamente, hanno apprezzato l'operato di don Mario come prete: ma questo è nell'ordine delle cose, anzi nell'ordine del Vangelo.
Come uomo anch'egli ha le sue debolezze, i suoi punti di vista particolari, può commettere degli errori; ma chi può dire di essere perfetto? Il Vangelo insegna: « Se un tuo fratello ha mancato contrg di te, va' e parla con lui. Questo atteggiamento, che va espresso con umiltà e fratellanza, vale anche con il prete; e sarebbe certo apprezzato. Il dolore più grande di un prete, ce lo ha detto prima di partire il nostro parroco, è quello di essere soli, di avere la gente che ti volta le spalle. Siamo certi che l'amarezza e la nostalgia di don Mario nel lasciare Castelnovo confermano il contrario: che egli non è rimasto solo in mezzo a noi.
Per questo il dispiacere della sua partenza è anche nostro. In questa identità di sentimenti ci accomuna anche la speranza di poter continuare sulla strada percorsa, lui con una nuova comunità, noi con un nuovo sacerdote, nella fede e nell'amore in Cristo.
ALFONSO EPIBOLI
Voci Amiche ott 1975
È appena finito il mese di giugno e dopo la Pasqua e l”Ascensione, e stato un susseguirsi di altre feste per i cristiani: la Pentecoste, la S.S. Trinità, il Corpus Domini e alla fine ecco: il Sacro Cuore di Gesù, del Cuore Immacolato di Maria, S. Luigi, S. Vigilio, patrono della nostra diocesi, i santi Pietro e Paolo.
Sono tutte occasioni per un richiamo per una conoscenza e per un ulteriore arricchimento della nostra fede. Ed assieme a tutte le altre, che troviamo lungo l'anno liturgico, servono a fare della nostra vita una festa continua, quando questa è compresa nel suo vero significato. Sono infatti tutte feste che ricordano la morte di uomini e di donne che nella vita si sono ispirati alla vita e alla morte di Cristo e ora vivono nella gloria di Dio. E' per questo che il cristiano è chiamato a gioire nel giorno della loro morte e fare festa con tutto ciò che questo comporta. Capita bene questa dinamica, non c'è da meravigliarci se il cristiano è chiamato a gioire anche nel giorno del pianto, specialmente se questo avviene al momento della morte di una persona cara che si è sforzata di realizzare gli ideali cristiani.
Così ci e sembrato di vedere nel giorno della morte del nostro Remo Trentinaglia, prima da parte dei familiari e poi nel funerale al quale ha partecipato una numerosissima folla proveniente anche dai paesi vicini. A tutti, i familiari esprimono profonda riconoscenza.
La morte di Remo è avvenuta nel giorno di S. Luigi, il giorno seguente era la festa del S. Cuore e il giorno del funerale era la festa del Cuore Immacolato di Maria. Dio, Gesù, Maria, i santi sono stati i suoi ideali che traduceva poi nella pratica cristiana con l'attività nell'oratorio, nella partecipazione al coro parrocchiale (coro che nella messa funebre ha espresso il meglio di se stesso commovendo tutti i partecipanti), nell'amore al lavoro che ha svolto anche quando le forze gli venivano meno, nella passione alla montagna dove trascinava gruppi di ragazzi, assieme ai vari parroci che ha conosciuto nella sua breve vita. Per tutto questo e per il coraggio con cui affrontò la sua lunga malattia, ci sembra di poter affermare che anche la sua morte, il suo funerale, è stata una festa. Ci auguriamo che siano molti i giovani che si mettono sulle sue tracce.
Voci Amiche lug 1990
In un giorno, tutti i ricordi «dei ani dela masara»
Un'indagine sulla popolazione e sulla sua composizione e sempre uno strumento che permette utili considerazioni ai fini di una conoscenza della vita di un insediamento umano; anzi consente di delineare prospettive e programmi per il futuro.
In questo e in alcuni dei prossimi numeri di Voci Amiche verrà svolta un'analisi, talvolta forse arida, ma sempre concreta, della situazione demografica e professionale della popolazione di Castelnovo. I dati sono in qualche caso sommari o incerti, ma le valutazioni a grandi linee sono sostanzialmente esatte e quindi significative.
Una prima osservazione emerge a proposito della consistenza degli abitanti residenti a Castelnovo a partire dagli anni del secondo dopoguerra: c'è un sensibile calo della popolazione, attenuatosi soltanto negli ultimi tre anni.
In cifre, questo calo si misura con una differenza negativa di 150 abitanti rispetto a 25 anni fa. Ecco i dati:
Anno Abit. Anno Abit. Anno Abit. 1947 1004 1957 1025 1967 897 1948 1011 1958 1009 1968 900 1949 1028 1959 1008 1969 897 1950 1042 1960 1016 1970 906 1951 1011 1961 1015 1971 883 1952 1034 1962 1005 1972 899 1953 1034 1963 998 1973 879 1954 1022 1964 969 1974 879 1955 1021 1965 954 1975 894 1956 1012 1966 921 1976 893 1977 903
Fra questi anni, quello con maggior numero di nati (28) fu il 1954, quello con meno nascite (5) il 1973; l'anno più colpito dai decessi (20) è stato il 1976, quello con meno morti (5) il 1974.
Il movimento migratorio ha registrato l'esodo più consistente (56 ab.) nel 1967 e l'immigrazione più massiccia nel 1975 (44 unità).
E' evidente che il fattore principale del declino demografico nell'ultimo decennio è soprattutto la diminuita natalità, poiché emigrati ed immigrati registrano sostanzialmente un vicendevole equilibrio, mentre la mortalità mantiene gli stessi valori dei decenni precedenti. Diminuita natalità significa soprattutto potenziale incapacità di ripresa demografica, che potrà attuarsi quindi soltanto con un considerevole apporto di immigrati o con un contenimento dei residenti che emigrano altrove.
Importante è considerare anche lo stato civile della popolazione. Castelnovo conta attualmente 893 abitanti, ai quali si potrebbero aggiungere anche 72 residenti all'estero, ma iscritti nelle liste elettorali del nostro Comune.
La ripartizione per sesso vede il predominio dei maschi sulle femmine, con una proporzione di 472 elementi (52,9 0/0) contro 421 (47,1 0/0). L'eccedenza maschile si ripercuote, evidentemente, anche nei matrimoni, essendo probabile, in linea teorica, che i maschi debbano ricercare la propria partner anche fuori paese; ma andrebbe verificato questo rapporto in tutti i centri della zona, per vedere se lo squilibrio si mantenga tale o se la casistica sia diversa.
Considerando la popolazione oltre i diciotto anni (683 unità), la distribuzione dello stato civile presenta questi valori: celibi 22,1 % - nubili 9,8 % - coniugati 59 °/o - vedovi 8,9 % - 1 divorziato. Colpisce subito la marcata differenza fra celibi e nubili: le donne da sposare, oltre la maggiore età, sono 67, gli uomini ben 151.
Ciò a dimostrare due cose: che le donne si sposano più giovani e, soprattuto, che si sposano in maggior numero degli uomini. E non ultimo motivo a determinare questa situazione è la sopraddetta eccedenza numerica dei maschi: che avvantaggia, nel matrimonio, le donne.
L'ultimo aspetto di questa carrellata demografica riguarda le attività economiche della popolazione. La ripartizione secondo categorie professionali è stata fatta con una certa approssimazione, non potendosi verificare puntualmente le professioni esercitate da ciascun individuo e, tanto meno, i mutamenti occorsi in tempi recenti. Ma il quadro offerto sarà ugualmente indicativo.
Anzitutto la professionalità va analizzata tra la popolazione attiva (63,20/o del totale degli abitanti), escludendo cioè i bambini in età pre-scolare (6,8 %), gli studenti della scuola dell'obbligo (11,30/o) e i pensionati (18,50/o).
Il primo settore professionale, di gran lunga distaccato dagli altri, è quello operaio (4O,3%) della popolazione attiva), nel quale si raggruppano addetti all'industria, all'edilizia e a taluni esercizi non altrimenti catalogabili. Questo da+to, peraltro non sorprendente, ci dà la misura della prevalenza del settore secondario sugli altri due ed orienta anche chi voglia affrontare il problema del lavoro nella nostra zona.
Al secondo posto nel settore produttivo, anche se non remunerato, le casalinghe (155 unità, 27,4 %), ad attestare che la condizione femminile è in buona parte ancora quella tradizionale, per la quale le possibilità socio-economiche offerte alla donna sono ben diverse che per l'uomo. I contadini sono 48 (8,5 %), gli studenti oltre i quattordici anni 52 (9,2 %), 24 gli impiegati (4,2 %), 10 esercenti (1,7 %), 6 militari di leva (1,1 %), 5 insegnanti, 5 carabinieri, 8 invalidi, 6 camerieri-cuochi, 4 infermieri. Circa il 2,5 % della popolazione attiva esercita altre professioni non rilevanti statisticamente.
Una conclusione non significa nulla se ripete le osservazioni fatte sopra. Sarebbe invece molto più indicativa se potesse confrontarsi con lo stato professionale dei decenni precedenti (ne risulterebbe così il declino inarrestabile degli addetti all'agricoltura o il profondo mutamento nel settore scolastico), e se potesse sovrapporsi alle programmazioni che, a livello amministrativo, si fanno per la nostra valle o compararsi alla più vasta realtà provinciale e nazionale (da noi, per esempio, non si nota ancora la vertiginosa corsa al terziario).
Ulteriori indagini di questo tipo sono, in ogni caso, sempre utili per illuminare aspetti della vita locale spesso misconosciuti.
ALFONSO EPIBOLI
Voci Amiche may 1978
Popolazioe: un calo inarrestabile
Non conosce tregua la diminuzione lenta, ma inesorabile, degli abitanti di Castelnovo, avviati ormai verso la soglia delle ottocento unità.
Un rapido excursus degli ultimi trent'anni è pienamente significativo di questa tendenza.
Nel 1961 il paese contava 1016 abitanti, nel 1971: 906, nel 1981: 878, nel 1983: 844, nel 1985: 837, nel 1987: 836, al 31.12.1988: 824 (di cui femmine 415, maschi 409).
Ad accentuare il calo nel 1988 è stata l'eccezionale sequela di decessi, che ha colpito ben 21 residenti: Giovina Rodler, Arturo Bombasaro, Giovan Battista Perozzo, Pierina Calvi, Ernesto Denicolò, Giuseppina Rodler, Giuseppe Agostini, Antonio Denicolò, Andrea Ceppinati, Maria Denicolò, Adelmo Grandini, Amalia Nervo, Filomena Bonecher, Oliva Brusamolin, Rino Campestrin, Mario Demonte, Antonio Simonetto, Primo Brusamolin, Fabio Lorenzin, Perfetto Agostini, Aurelia Pallaoro.
A ciò si aggiunga che anche il movimento migratorio ha registrato un saldo negativo: 16 emigrati contro 12 immigrati.
Un po' più consolante è invece l'andamento della natalità, che, negli ultimi anni, si sta assestando su valori abbastanza elevati: così come nel 1987, anche nel 1988 ci sono stati 13 nati: Tito Andriollo, Federica Brusamolin, Antonio Simonetto, Sara Fornasiero, Francesco Epiboli, Annalisa Zurlo, Paola Perozzo, Veronica Brendolise, Matteo Bertoni, Eva Tomio, Stefania Wolf, Sara Ferrai, Alex Valduga.
Il recesso demografico non è certo una caratteristica solo del nostro comune, ormai in tutta Italia e anche in molti stati europei si assiste a fenomeni di assestamento o di regresso numerico della popolazione. Al contrario, in tutti i paesi del terzo mondo la popolazione aumenta in modo vertiginoso. Sembra, insomma, che benessere e sviluppo comportino un rallentamento della procreazione, mentre povertà e sottosviluppo si associano ad elevata natalità.
Dalle cifre dell'anagrafe di Castelnovo emergono ancora alcune considerazioni. Anzitutto si osserva un progressivo invecchiamento della popolazione: alla fine del 1988 c'erano esattamente 200 ultrasessantenni (di cui 26 ultraottantenni); in percentuale gli anziani sono quindi il 24%, cioè uno su quattro. I residenti con meno di vent'anni sono invece 186, poco più del 22%. E una comunità che invecchia pone certo dei seri e nuovi problemi: assistenza, salute, tempo libero, rapporti sociali, difficoltà di rinnovamento.
Altre indicazioni sono fornite dall'analisi dello stato civile dei residenti. I coniugati risultano essere 392 (47,5% del totale), nessuno dei quali con meno di vent'anni (lo scorso anno ci sono stati 9 matrimoni, ma solo 7 coppie sono rimaste in paese). I celibi sono 194 e le nubili 152: in totale 346 (42%), di cui 186 al di sotto
dei vent'anni e 75 al di sopra dei 30 anni. Vi sono ancora 18 vedovi e 63 vedove, nonché 5 fra separati e divorziati. Risulta dunque che le donne si sposano più degli uomini e a un'età più bassa; e rimangono anche vedove in maggior numero: tendenze queste che si riscontrano quasi ovunque.
Infine i nuclei familiari sono 326, dei quali90 sono costituiti da una sola persona, 87 da due, 71 da tre, 57 da quattro, 21 da 5 o più; la famiglia media è dunque costituita da 2,5 componenti.
I fenomeni esaminati, osservabili oggi su vasta scala in molte società, sono dunque il segno di una comunità ma anche di una mentalità che cambia. Il futuro ci dirà se la direzione intrapresa è quella migliore.
Ringraziamo l'ufficio dell'anagrafe comunale per la gentile disponibilità a fornirci i dati riportati.
Voci Amiche apr/may 1978, mar 1978, feb 1989
Nota in margine sul movimento della popolazione in paese
Riceviamo e pubblichiamo:
Con la considerazione che la popolazione del nostro paese, pur in un momento in cui le strutture industriali «in loco ›› sono in continua espansione e la richiesta di forza lavoro, soprattutto giovane, diventa sempre maggiore, sorge spontaneo domandarsi il perché di questo fenomeno che nei suoi termini è quasi un controsenso. Mentre infatti attorno al nostro paese sorgono fabbriche nuove, ci troviamo di fronte ancora ad un certo esodo di persone, accompagnate peraltro da una percentuale di immigrazione insignificante.
Ovviamente determinare con esattezza e obbiettivita le cause di questo fenomeno sarebbe pura presunzione, ma si possono però porre alcuni « perché ››, e tenere conto di alcune circostanze che - anche parzialmente - spieghino o giustifichino questi fatti che sono pur sempre reali.
Sembra che alcune nuove famiglie abbiano dovuto lasciare il paese per l'impossibilità di trovare un alloggio il cui canone di affitto non incida in maniera determinante sul bilancio familiare o anche per mancanza assoluta di casa.
Ciò significherebbe che il problema dell'edilizia popolare esiste anche da noi in maniera non proprio marginale, Anche se per Castelnovo c'e un progetto per la costruzione di appartamenti Gescal - e ciò porterà certamente alla soluzione dei problemi per qualche famiglia - non è ancora sufficiente. Una proposta comunque potrebbe essere anche l'esempio del Comune di Scurelle, cioè l'acquisto da parte del Comune di appezzamenti di terreno destinati ad essere rivenduti ai censiti a prezzo controllato, completi delle sovrastrutture urbanistiche necessarie alla costruzione di abitazioni (acqua, fognature, ecc.).
Il problema dell'abitazione è in fondo quello che determina in gran parte decisioni come quelle di lasciare il paese che è il proprio, per andare ad abitare in un altro dove, in qualche modo il problema venga temporaneamente risolto.
Altra soluzione al problema della casa potrebbe essere quello di dare uno sguardo - oltre alle zone destinate dal piano urbanistico per la costruzione di nuovi edifici di abitazione - alle case vecchie, semiabitate o disabitate, magari chiuse da parecchio tempo e vedere se non sia conveniente farci un pensierino serio.
D'accordo che la casa nuova, isolata almeno dall'orto e da un congruo spazio di verde sorride maggiormente, ma non è raro trovare delle case vecchie rifatte che non hanno nulla da invidiare a quelle più recenti.
Guardiamoci in giro, diamoci da fare secondo il vecchio detto: aiutati ché il ciel t'aiuta!
UN GRUPPO DI GIOVANI
Voci Amiche may 1974
Una bella vocazione
Con molto rincrescimento appresi la scomparsa di mons. Giovanni Venzo. Subito m'aparve alla mente quel lontano giorno, quando soldato ritornò prigioniero dalla Russia. Era quasi irriconoscibile: patito, macilento; il volto portava i segni di tanta sofferenza. Quanta pietà faceva! Durante il giorno sedeva accanto ai giovanissimi fratelli nell'atrio di casa, ove la sua famiglia viveva accanto alla mia (eravamo profughi), accolti in una villetta lontano 2 Km da Guastalla Emilia. Mentre fumava un'umile pipa, il suo occhio stanco e mesto guardava sempre lontano, come implorando aiuto e conforto. Il suo labbro era sempre chiuso ai nostri discorsi di fanciulli. Pareva che nulla lo interessasse in questo mondo.
Un giorno, la mia mamma, vedendolo così pensieroso, gli disse: « Giovanni, provi a portarsi a Guastalla, in seminario dal Vescovo, forse può aiutarlo e procurargli qualche buona occupazione; non si sa mai quali sono le vie del Signore!
Al giovane Giovanni fece impressione il suggerimento e decise d'accettare la proposta. Il Vescovo, interrogatolo, lo ammise al servizio di cameriere e qui vi rimase per 2 anni, durante i quali, rinvigorito nel corpo e nello spirito, si andò maturando la vocazione sacerdotale. Il Vescovo si trasferì a Massa Carrara, seguito dal suo cameriere. Qui, il giovane incominciò gli studi che seguì sempre con molta attitudine e ferrea volontà; finalmente, dopo alcuni anni poté celebrare e innalzare al Signore un ringraziamento particolare: averlo salvato dalla dura e pericolosa prigionia; avergli concesso in modo così avventuroso la vocazione, presso un grande ministro del Signore; aver raggiunto il sacerdozio, dono eccelso che il buon Dio concede a chi lo cerca con cuore sincero e umile.
Fu rettore del seminario di Castelnovo Garfagnana e dedicò ai seminaristi tutte le sue energie migliori. Durante la seconda guerra saliva sulle colline dell'Appennino toscano con lo zaino in spalla in cerca di castagne per sfamare i suoi cari seminaristi. E così, faticando ogni giorno, raggiunto il limite delle sue energie fisiche, dovette ritirarsi quale pensionato, in un umile paesino, ove, all'inizio (così mi confidava), soffri moltissimo, vedendosi lontano dal suo amato seminario e non poter lavorare com'era stato sempre abituato. Quando veniva al natio loco per un mese a trovare i fratelli, lo si vedeva nel tardo pomeriggio in chiesa a pregare per lunghe ore davanti al tabernacolo. Quali colloqui col suo Signore, che gli aveva concesso inestimabili grazie? Don Giovanni fu un uomo di preghiera, di sacrificio, di offerta. Ora, dall'alto, pregherà certamente, con insistenza, com'era sua abitudine, la Vergine, perchè fioriscano ancora numerose e sante vocazioni, anche in modo misterioso, o trdivo, come avvenne per mons. Giovanni Venzo.
Amelia Coradello
Voci amiche agosto 1980
S. Messa padre Giancarlo Denicolò
Fra la gioia e l'ammirazione di tatti i Castelnovati, padre Giancarlo Denicolò ha celebrato, domenica 18 agosto, la sua prima s. Messa nella nostra chiesa.
Per il novello prete è stata una giornata di festa nella quale si è ritrovato, per la prima volta tra parenti e paesani non più solo come un semplice amico, ma come un nuovo ministro di Cristo.<
Durante la santa Messa, concelebrata con mons. Giovanni Venzo, diventato un grande e valido veterano, padre Giancarla a trovato modo di ringraziare tutti per aver partecipato a quello che da anni é stato il suo sogno: la celebrazione del mistero di Cristo ci ha ricordato un po' il suo passato fra noi, e quello che ora sarà il suo futuro.
La funzione liturgica è stata completata dal coro che ha saputo offrire ancora una volta la volontà a l'impegno di chi lo compone, un qualcosa di più di una semplice Messa, perché cantare, e sopratutto cantare bene, è compregare bene due volte. Or non c'è da sperare altro che altri seguano l'esempio di padre Giancarlo nel diretto servizio a Dio.
Norberto Pfretzschner di Chiusa di Bressanone « professore delle belle arti>>. Il quale ultimo dichiara a sua volta di non aver mai neppure veduto quel trittico. Dopo di allora il barone Ceschi muore. Ed il professor Pirtzschner si fa vivo per chiedere al nostro Ministero dell'Istruzione di poter esportare liberamente all'estero certi oggetti d'arte provenienti.... dalla Svizzera. Poco dopo, contro di lui viene avviato procedimento penale; ed egli si affretta a richiamare da Innsbruck ed a restituire alla chiesa di Telve due pale di altare di proprietà di quella chiesa, spergiurando di averle già avute in consegna da un comando austriaco della Valsugana. E intanto proprio da Innsbruck e da certo dottor Enrico Pfretzschner, già tenente austriaco nel Veneto invaso, una nobile donna di Monreale Cellina riesce a sua volta a ricuperare alcuni dipinti scomparsi durante la guerra.
Ma e il trittico di Castelnuovo?
L'elenco degli oggetti venuta mancare durante la guerra in casa dei baroni Buffa a Teve contiene ben 140 numeri. Ma di una cassaforte antica, armata in ferro, ornata cogli stemmi dei canti d'Arco e Castellalto, e contenente già l'archivio di famiglia dal secolo XIV in poi, e di antico armadio, si era riuscito ad avere più precise informazioni. Della loro asportazione si diceva essersi interessati certo Attilio Zottele di Borgo (ma guarda un po' chi si trova!) ed il capitano Roberto Ueberbacher di Bolzano, allora comandante dell'azione di coltura dei campi!
Il capitano Uberbacher ammise infatti davanti all'arma dei Carabinieri di avere trasportati quei cassoni a Bolzano; ma una perquisizione praticata in casa sua diede esito negativo. L'ufficio Belle Arti interessò della prosecuzione della pratica il Commissariato civile di Bolzano.
Questi trasmise l'incartamento alla Procura di Stato pure di Bolzano. Di qui essa trasmigrò per competenza al giudizio distrettuale di Borgo, che a sua volta la rimise ai Tribunale circolare di Trento; ove Zottele ed Uebacher vennero senz'altro assolti. I due armadi erano stati trasportati a Bolzano per incarico dell'autorità militare!
(Incartamento di 41 atti)
Nella chiesa atta di S. Margherita presso Castelnuovo di Valsugana trovavasi un trittico di legno, ove troneggiava la statua della santa patrona ed erano dipinti i fatti della sua vita insieme colla veduta del castello e coi ritratti dei rispettivi dinasti.
L'icona è registrata come "sehr alt und Kostber" in un inventario degli oggetti presi in consegna il 12 gennaio 1917 dal cappellano Militare Padre Paolo Bertagnolli; ma manca invece già nell'elenco 21 febbraio della suppellettile messa in salvo che veniva affidata alla Curia, a firma del maggiore barone Antonio Ceschi i. r. comandante di pizza a Borgo e del sergene Bortol Lauton.
Eppure Padre Bertagnolli non ne sa nulla.
Il sergente Lauton, potutosi scovare a Koessen in Tirolo e l'amministratore Attilo Zottele da lui suggerite come probabilmente informato della cosa non ne sanno nulla. E nulla ne sa il barone Ceschi, interrogato dalla stesso direttore dell'Ufficio Belle Arti, pur assicurando che il dipinto era tuttora in mano dell'autorità militare entro al palazzo Hippoliti di Borgo allora quando egli ebbe a cedere il posto al maggiore ...
Ciao, sono passato a trovarti. E a dirti grazie. Non ho voluto dirtelo prima nella vana speranza che i tuoi ultimi giorni non fossero affatto tali. E poi avevo paura di soffiare troppo forte sulla candela che andava piano piano spegnendosi.
So perfettamente che le parole, qualunque parola, sono cosa misera rispetto a quello che vorrei esprimerti, ma accetta questo mio tentativo, e lasciami provare.
È un grazie immenso quello che sento il bisogno di dirti. E da quando non sei più tra noi mi accorgo che i motivi per questo grazie li incontro in tanti momenti, in tanti atteggiamenti, in tanti pensieri di ogni giornata. Difficile dire quale è la dote che ho apprezzato di più in te. Forse quella tua instancabile ricerca della verità da qualunque parte essa provenisse forse quel modo di esprimere la tua grande conoscenza e cultura in maniera semplice ed immediata, quasi come porgere premurosamente un giocattolo ad un bambino. O forse ancora quel tuo modo pacato ma deciso, silenzioso ma profondo, di vivere quotidianamente la fede. Sono solo alcune delle qualità, che ho avuto la fortuna di conoscere ed apprezzare nei periodi di lavoro, di vita comunitaria e sociale, e nelle tante iniziative alle quali abbiamo partecipato assieme in allegria e serietà, nelle difficoltà e nei momenti di divertimento, con la diversità di opinioni che portava spesso a discussioni anche accese.
Quanto utili mi sono state quelle discussioni. E quante cose da te ho tentato di imitare.
Ora scusami, ti devo salutare. Ma non prima di un ultimo grazie. Te lo devo per il regalo che hai fatto a me, e a tutti, già parecchi anni fa: il testo di un canto che facevamo assieme per la messa. L'hai ricavato dagli insegnamenti delle Scritture e hai composto un testo chiaro, semplice, ma denso di significati, come era nel tuo inconfondibile stile, nonostante avessi dovuto adattarlo alla metrica della musica. Le parole mi avevano colpito subito, già allora, ma ultimamente stazionano e risuonano nella mia testa come un ulteriore insegnamento che hai reso prepotentemente vero con la tua storia ed il tuo comportamento.
Immagino, conoscendo la tua contrarietà a finire in prima pagina, che non saresti favorevole a ricordarle pubblicamente. Ti chiedo scusa se lo faccio ugualmente, ma non posso fare a meno di ricordare anche questo tuo aspetto.
Ciao Alfonso, metti una buona parola per noi tutti lassù, ne abbiamo bisogno.
Egli lassù provvede
di Alfonso Epiboli
Guarda i fiori di quel prato
come son belli, come son vivi,
e pure non pensano al loro domani
Egli lassù provvede a loro.
Guarda le rondini lassù nel cielo
non si disperano per il futuro,
Qualcuno c'è anche per loro
che le fa vivere e le fa volare.
Perché tu uomo pensi soltanto
ai tuoi averi, al tuo domani,
e tutto il resto Lui ti darà.
Fatti un tesoro lassù nel cielo
dove nessuno lo può rubare
la ci sarà anche il tuo cuore
insieme a Dio, nella sua gioia.
Voci Amiche set 1994
Movimento e calcolo della popolazione residente anno 1997
Popolazione residente al 31 dicembre 1997
Maschi Femm. Totale
Popol. residente al 1° gennaio 1997 440 445 885
Nati 5 6 11
Morti 2 5 7
Immigrati 16 12 28
Emigrati 9 10 19
Pop. residente al 31 dicembre 1997 450 448 898
Popolazione al 30 giugno 1998
Maschi Femm. MF %
sotto i 20 anni 97 116 13 23,8
tra i 20 e i 40 anni 140 127 267 29,8
tra i 40 e i 60 anni 117 91 208 23,7
oltrei 60 95 113 208 23,2
Nati:
Cristopher Sordo il 14 marzo 1998;
Margherita Jurny il 24 aprile 1998;
Vanessa Pagnusat il 21 maggio 1998;
Emilio Pecoraro il 28 maggio 1998;
Giuliano Stamo il 10 giugno 1998.
Morti:
Ugo Dalceggio il 26 marzo 1998;
Maria Demonte il 6 maggio 1998;
Attilio Stefani il 15 giugno 1998;
Lucia Stocco in Lira l'11 maggio 1998.
Premessa
Non so se alle nuove generazioni interessi la storia locale passata, ma nonostante ciò io tento di scrivere come vivevano e come lavoravano un tempo, specie nel settore agricolo, ed in questo caso nell'allevamento del baco da seta, un lavoro che nonostante tutti i sacrifici che comportava era una delle poche fonti di reddito, delle povere famiglie del tempo.
Così nel mio ricordo avendo anche la mia famiglia che lavorava in questo settore, racconterò quanto segue. Dirò inoltre che molti contadini essendo “masadori”(mezzadri) dovevano dare metà del prodotto al padrone che in questo caso era veramente padrone cosicché: doppio lavoro, doppio sacrificio, e metà resa.
Sono passati molti anni, da quando qui in Valsugana, era attivo l'allevamento dei bachi da seta detti comunemente in dialetto “Cavalgeri”. L'allevamento che durava circa un mese era come già detto, una delle principali fonti di reddito dell'agricoltura del tempo, questo a mio ricordo negli anni 1930-1939, cioè negli anni tra le due guerre.
Diremo perché questo lavoro che impegnava al massimo i contadini fu smesso. Il motivo fu che con la scoperta delle fibre artificiali, la vera fiera seta naturale fu antieconomica; perciò i bozzoli, così si chiamavano gli involucri che erano fatti simili ad un otto un po' schiacciato a metà e detti in dialetto “galete” e dove erano affusolati dai 500 ai 600 metri di filo di seta, non furono più pagati al prezzo dovuto e quindi l'allevamento fu smesso!
Ora spiegherò come si svolgeva questo lavoro dell'allevamento dei bachi ossia “cavalgeri”.
Quando i gelsi detti comunemente “morari” cominciavano a mettere le foglie, - e qui sia detto per inciso che il baco da seta mangiava esclusivamente e solamente foglia di gelso - presso le aziende agrarie di Borgo, venivano, dopo essere stati prenotati, distribuiti a pagamento i piccolissimi bachi che erano di una grandezza di circa tre millimetri di lunghezza.
Erano di un colore grigio scuro ma che poi crescendo diventavano ci colore grigio bianco. Dunque i detti bachi venivano portati a casa al caldo specie se il tempo era brutto. Si mettevano generalmente nelle cucine su delle piccole assi, dette “Vignarole” fissate a più ripiani alle travi del soffitto. La misura con cui si distribuivano era ”oncia. Chi prendeva un oncia o due, ma erano rari, poiché quando crescevano non si sapeva più dove metterli ma generalmente erano tre quarti d'oncia, mezza oncia, e dove c'era poca forza in famiglia bastava un quarto d'oncia.
Appena portati a casa ai bachi veniva data la prima foglia di gelso, tagliuzzata fine, per circa quattro volte al giorno.
Man mano che crescevano occupavano sempre più spazio e allora venivano messi su dei tavoli di legno detti “solari” che erano fissati a più ripiani a delle robuste travi e pure queste fissate al soffitto.
I bachi dopo 5-6 giorni dormivano, cioè facevano la prima muta, che consisteva nel cambiare la perle. Stavano così senza mangiare per due giorni. Questo succedeva per quattro volte durante la loro vita. Ogni volta che dormivano, ossia ripeto cambiavano pelle, bisognava levarli dai tavolati e pulire il letto dalla foglia non mangiata e da tutti gli escrementi.
E intanto i bachi crescevano. Se prima stavano su di un tavolo, ora con un solo quarto d'oncia ci voleva una camera tutta a disposizione per loro. I tavolati sovrapposti uno all'altro e fissati ai quattro angoli del locale da robuste travi di legno venivano alzati e abbassati a seconda del bisogno per dare da mangiare ai bachi (quattro volte al giorno).
Per alzare e abbassare questi “collari” ci volevano delle robuste raccia. E intanto i bachi crescevano di peso e anche di grandezza fatta la quarta e ultima muta cominciavano a mangiare come si diceva allora “a furia”. Se per caso quel tempo fosse venuta la pioggia ciò che nei mesi di maggio e giugno era molto facile, si dovevano tagliare i rami dei gelsi e portarli a casa al coperto in un posto asciutto, per poter usare la foglia asciutta .perché altrimenti i bachi, a mangiare foglie bagnate, potevano morire. La foglia occorrente, asciutta, era raccolta da uomini e donne e se ne avevano voglia anche dai ragazzi e veniva data a bracciate sopra ai bachi così com'era e quando mangiavano facevano un rumore come quando piove. Dalla quarta muta si cominciavano a contare i pasti, ce ne volevano circa 23-24 prima che cominciassero a dar segno di filatura.
La foglia di gelso si raccoglieva a quintali a seconda della quantità dei bachi.
Anche nei nostri paesi ci furono dei morti per la caduta dagli alberi di gelso di cui la campagna era piena a quei tempi. Ora sono quasi una rarità. Dunque quando andavano “a filare” (si diceva allora così) i bachi erano diventati grandi, lunghi e grossi come un dito medio di un uomo. Allora cominciavano a cambiare colore, diventavano di colore giallo dorato e dimenavano la testa per cercare un appiglio dove fare la “galeta”.
Così si levavano dai tavolati e sullo stesso posto dopo un'accurata pulizia si mettevano fascine di vite, rami di pino, stracci puliti, si faceva cioè il così detto bosco. I bachi si infilavano nei buchi loro adatti e girando continuamente la testa cominciavano la ?latura, si chiudevano pure le finestre e i balconi per fare buio.
I Cavalgeri erano andati a filare, questo era il detto popolare, il tempo impiegato era di circa 12 giorni così nelle case subentrava raccolta delle “galete”, cioè dei bozzoli; questo si faceva levando i bozzoli da tutti i luoghi dove i bachi li avevano fatti, si prendeva un bozzolo alla volta, si puliva della bambagia in cui era avvolto, ed era pronto per la vendita. Così nella casa si potevano smontare
tutti i “solai” dove si erano allevati i bachi, fare pulizia delle stanze e tornare a una vita normale.
Il tempo impiegato nell'alleva mento era di circa 40 giorni.
La resa media era di circa 80-85 kg. per oncia. Bisogna dire che dopo la raccolta circa 8-10 giorni il baco che era nel bozzolo faceva la metamorfosi, cioè diventava farfalla, bucava il bozzolo e usciva. In questo caso il bozzolo non era più utilizzabile, poiché per uscire tagliava tutti i fili. Però in questo caso la farfalla depositava le uova e così continuava il ciclo vitale.
Nei primi tempi dopo la prima guerra mondiale a comprare i bozzoli venivano i mercanti del Veneto, a quel tempo furono pagati 28-30 lire al kg, un prezzo carissimo a quel tempo, quando si pensa che un operaio, se c'era lavoro, riceveva una lira all'ora. Poi il prezzo andò sempre diminuendo causa le fibre artificiali, finché non ci fu più convenienza ad allevare il baco da seta.
Dimenticavo di dire che il periodo di allevamento era fra la metà di maggio e la fine di giugno, tanto che la festa di S. Prospero a Borgo fu spostata da gennaio alla seconda domenica di luglio, perché questa povera gente avesse qualche soldo da spendere in occasione della sagra in quegli anni di miseria. Per finire dirò che il seme dei bachi si era ammalato e così morirono tutti. Così un prete, don Giuseppe Grazioli, un trentino di Lavis vissuto nel secolo scorso, andò in Cina dove il seme era sano ed esportarlo era proibito, e lo portò da noi nel cavo di un manico di bastone.
Carmino Epiboli
CNuovo notizie Lu 98
Per diversi anni moti di noi si sono chiesti: Chi è? Che cosa fa? Da dove viene?
Eri una persona come tante altre, affacciatasi quasi casualmente nella nostra comunità.
Poi, piano piano, sei diventato unico, e presente tutti i giorni con un tipio accento milanese e accanito sostenitore del Milan, ma con un more immenso per il nostro piccolo paese.
Se qualcuno di noi ti chiedeva: Ci sei? Rispondevi subito con la tua voce potente e da corista "sono il nipote di Bepi Babilonia".
Molte persone sicuramente non molto giovani ricordano perfettamente quel personaggio: un omino piccolo, magro, sempre dotato di cappello che puliva le strade ogni settimana prima della festa, con tutti gli arnesi in dotazione.
Eppure per il "Beppino Milanes" era una figura importante da rispettare e ricordare, uno dei pochi che entrarono nei ricordi della gente e che ancora oggi viene menzionato in qualche occasione.
Sì, è vero, caro Beppino che tu ti presentavi come il nipote di Bepi Babilona, ma per me come per molta giovani sei stato e sempre sarai un ricordo indelebile, una persona semplice, cordiale, comica, umana che ha dato di sé per gli altri in questi anni cui hai vissuto con noi da pensionato.
Le associazioni del paese e tutti i giovani del calcio del comprensorio ricorderanno la tua carica umana.
Per sempre porterò nel mio cuore la tua disponibilità per aiutare la nostra locale Pro Loco.
La sera della festa del paese mi chiedevi le chiavi della sul polivalente per riordinare e fare le pulizie dopo che tutti ci eravamo divertiti, perché dicevi: "io mi alzo prima di voi e intanto incomincio" ma spesso finivi prima del nostro arrivo.
Finivi con noi e subito correvi per la pulizia costante e minuziosa dell'oratorio.
In questi ultimi anni ti sei dedicato solo agli altri, come possiamo fare a dimenticarti?
Quando mai una persona libera da impegni lavorativi ha fatto tutto quello che tu sei riuscito a fare?
Non è certo nel momento della tua dipartita che mi sorge spontanea una domanda ricorrente: perché se ne vanno sempre i migliori?
Per quale progetto soprannaturale può avvenire questo?
Io auguro che tutta la nostra comunità si ricordi sempre di te, delle tue grandi mani e delle tue braccia da lavoratore elle quali scorreva un sangue speciale.
Vorrei che di te rimanesse il ricordo di una persona più unica che rara e spero che le associazioni operanti in paese riescano a dare alla tua famiglia un segno tangibile della tua valenza.
Sappia in ogni caso che io, come tantissimi giovani ed allenatori che ti hanno accompagnato in uno stupendo pomeriggio di sole dove se ora, ti porteremo sempre nel cuore come un simbolo da imitare.
Grazie Beppe a nome di tutta la nostra comunità,
Per noi ci sarai sempre.
Egregio Signore:
ricevuto il Vostro Notiziario del Comune di Castelnuovo mi sono sentita felice. I miei nonni, Vigilio Francesco Coradello e Maria Gelmo e due figli, Ruggero e Teodora, sono emigrate da Castelnuovo nel 1897, e hanno vissuto a Rojas e poi a Pergamino Provincia di Buenos Aires dove anche ci abito io. Sebbene tutti sono morti sostengo le mie radice italiane e mantengo un rapporto con una loro figlia che abita a San Marino nelle Marche, e ha 101 anni. Spero di rivederla presto l'anno prossimo. Ho in progetto un viaggio e visiterò senz'altro il paese.
La ringrazio ancora una volta del Notiziario del Comune e La saluto cordialmente.
Olga Edith Coradello
Moreno l325.
2700 Pergamino, Bs.As.Argentina
* * *
Gentilissimi e carissimi Signori Sindaco e Giunta comunale di Castelnuovo
Vi ringrazio cordialmente di avermi inviato “Castelnuovo Notizie”, con gli auguri natalizi e i migliori auspici per il nuovo anno 1999.
E' sempre bello e nostalgico il dolce ricordo del “paese natìo”.
Che Iddio benedica tutti Voi con le Vostre amate famiglie, e tutti i nostri ari concittadini di Castelnuovo. Ciao!
Vostro obblig.mo amico
Don (P.) Beppino Venzo
missionario in Brasile
Brasile, Stato di Paranà,
Alvorada do Sul, l4 febbraio 1999
La degustazione delle "pezate di agnelo" durante la Sagra di S. Leonardo è ormai tradizione affermata e conosciuta non solo in tutta la bassa Valsugana.
Risalire all'origine di questo tipico piatto autunnale è però impresa ardua anche se ci può aiutare il racconto orale tramandato dai "veci" del paese. Alcuni di loro assicurano i più curiosi che da oltre cent'anni le "pezate" puntualmente finiscono nei piatti durante la Sagra di novembre.
Anche gli ingredienti base, sale e carne d'agnello, inducono a collocare sicuramente in un passato remoto le origini oscure di questo gustoso piatto. Il sale, da
sempre usato per conservare, fin da epoche prive della moderna tecnica frigorifera, e la carne d'ovino, disponibile in valle durante il periodo di transumanza dei greggi dagli alpeggi estivi alla pianura invernale. “Pezate” perché letteralmente sono parti di ovino adulti, di circa 250 gr, messi a macerare nel sale, pepe, alloro ... e altri aromi naturali, in recipienti cilindrici (mastei) muniti in alcuni casi di “torcello”, per non meno di tre settimane, a temperatura tra i 10 e i 12 gradi circa. Vanno poi bolliti, senza lavarle, per almeno due ore e poi preferibilmente servite con crauti e purè. Non può mancare l'accompagnamento di un buon vin rosso nostrano.
A Castelnuovo, il piatto venne dapprima cucinato in famiglia e solo in un secondo tempo riproposto anche dai luoghi di ristoro pubblici.
La stessa macelleria di Castelnuovo ha da sempre offerto la carne d'agnello maerta pronta per essere cucinata, mentre si ha memoria di almeno quattro locande che la servivano cotta: la Locanda al Vapore, la Trattoria alla Vigna, la Trattoria della Marta e il Circolo dopolavoro Enal. Le fonti assicurano che i degustatori, sempre soddisfatti, a quei tempi giungevano a piedi fin da Olle, Borgo e Telve. E Guido “del Vapore” aggiunge, aggiunge, precisando sul filo della memoria, che il lunedì successivo alla sagra nella sua trattria si serviva anche il denso brodo di cottura opportunamente allungato con acqua: niente si perdeva “sti ani”. C'era anche chi lo conservava per usarlo come condimento durante l'inverno.
Dopo la tragica parentesi della Seconda guerra mondiale, con il razionamento imposto e la tessera per il cibo, i più hanno via via abbandonato la consuetudine di cucinare le pezate. Erano rimasti solo la Locanda al Vapore e la macelleria Simonetto a salvaguardare la tradizione.
Con gli anni Settanta, e fino a tutti gli Ottanta, il "Coro Concordia" riprende a proporre per la Sagra le “pezate di agnello” servite nella palestra che il comune mette a disposizione per contener il sempre numeroso pubblico.
Dopo un breve parentesi di due anni, nel 1991, la Pro Loco rivitalizza l'appuntamto culinario, oggi nella rinnovata Sede della ex casa de Bellat. Nei tre giorni di sagra ne sono consumate circa 8 quintali, tra vendute crude e servite cotte.
Agli inizi del terzo millennio l'originalità del piatto è sempre più conosciuta ed apprezzata. Tanto che un decreto ministeriale del 18 luglio 2000 riguardante un primo censimento nazionale dei prodotti tradizionali, pubblicato dalla Gazzetta Ufficiale il 21 agosto, inserisce tra i 60 prodotti tipici della provincia autonoma di Trento le “pezate di agnelo o pezate”. Un passo importante che attua un precedente decreto (del 30/4/1998, n.173) per la valorizzazione del patrimonio gastronomico (art. 8) “allo scopo di promuovere e diffondere le produzioni agroalimentari italiane tipiche e di qualità e per accrescere le capacità concorrenziali del sistema agroalimentare nazionale, nell'ambito di un programma integrato di valorizzazione del patrimonio culturale, artistico e turistico nazionale".
Perché in un futuro, e speriamo non molto lontano, troveremo le pezate giustamente catalogate, con mille altre, in quell'Atlante del patrimonio gastronomico regionale italiano preannunciato nel decreto e che tutto il mondo c'invidia.
a cura della Pro Loco Castelnuovo tel.0461- 752712
realizzazione: Bruno Maggi -- Angelo Mengon
TULLIO BRENDOLISE
Voci Amiche nov 1972
Castelnuovo a Zurigo
Incontro con i « castelnovati ›› residenti a Zurigo
Restaurato il capitello della Madonna di Lourdes
Le prime notizie su San Leonardo si trovano nelle Historiae di Ademaro di Chabannes (1028 circa), dalle quali si apprende, fra l'altro, che nel 1O17 egli rifulgeva per i suoi miracoli. Tanto evidente era, dunque, il culto di Leonardo nell'anno Mille quanto
ignoti sono oggi i dati della sua vita. Nulla di attendibile contengono, infatti, la Vita (anonima e databile intorno al 1030) e quella scritta da Valeramno, vescovo di Naumburg (morto nel 1111).
Secondo queste fonti Leonardo sarebbe nato in Gallia alla fine del sec. V da nobili genitori, legati da parentela o da amicizia al re dei Franchi Clodoveo (481-511). Ottenuto dal monarca guerriero convertitosi al cristianesimo il potere di liberare i prigionieri, Leonardo accorreva in tutti i luoghi in cui veniva informato della loro presenza. Nello stesso tempo molti malati, attratti dalla sua fama di santità, venivano guariti. All'invito del re che lo voleva a corte, preferì il ritiro nel monastero di Micy, dove però non rimase a lungo poiché lo Spirito Santo gli ordinò di recarsi in Aquitania.
Nell'attraversare la foresta di Pavum, presso Limoges, ottenne con la preghiera a Dio il felice esito del parto della regina che stava per morire, in quel luogo, insieme al
nascituro.
In segno di riconoscimento Clodoveo gli presentò molti doni preziosi che Leonardo rifiutò pregando il sovrano di distribuirli ai poveri. Il re volle allora dognargli l'intera foresta, ma il santo ne accettò solamente una parte che denominò Nobiliacum (Noblac). Qui costruì un edifico per la preghiera in onore della Madonna e visse assieme a due monaci, continuamente visitato da innumerevoli malati, da lui guariti, e da molti prigionieri che avevano visto rompersi le catene alla sola invocazione del suo nome.
Anche questi erano accolti con benevolenza e ottenevano parte del bosco perché traessero dal lavoro e non dalle rapine il sostentamento quotidiano.
Crescendo sempre più la fama della santità di Leonardo, numerosi suoi consanguinei si
trasferirono presso di lui, costituendo così una comunità fondata sulla preghiera e sul lavoro.
Dopo la Prima crociata il principe Boemondo I di Antiochia gli attribuì la liberazione, nel 1103, dalla prigionia in cui lo tenevano i musulmani.
Sulla tomba di Leonardo fu eretta una chiesa, divenuta ben presto meta di pellegrini che, assieme alla Vita leggendaria del santo, ne diffusero il culto in tutta Europa, contraddistinto da una straordinaria fioritura di miracoli fino al XV sec. Le chiese in onore del santo si moltiplicarono anche in Italia, specie nel Meridione, ove il suo culto fu portato dai Normanni in Sicili.
La festa di Leonardo si celebra il 6 novembre, giorno della sua morte. Oltre ai prigionieri lo invocano come patrono i fabbri, in quanto costruttori di catene, le puerpere e i minatori del territorio francese di Liegi. E' protettore anche dei cavalli.
Catene e ceppi sono i suoi attributi più caratteristici nelle immagini che lo raffigurano; inoltre è rappresentato con la croce e il libro.
Il 20 dicembre 1898 papa Leone XIII "si degnava d'illustrare l'altare di San Leonardo del privilegio speciale che quante volte si celebra la messa l'anima per la quale il sacrificio col divino beneplacito è liberata dalle pene del Purgatorio". Un privilegio poi confermato nel 1906 da Papao Pio X.
a cura di Bruno Maggi e Angelo Mengon
Fonti: Bibliotheca Sanctorum (VIII) CdV - Enciclopedia Acclesastca (V), ed. Vallardi – Enciclopedia Cattolica (VII), CdV – Il Grande Libro dei Santi, ed. San Paolo (II)
Se a Castelnuovo si dovesse andare in cerca diun'analogia con i Farinoti e i Semoloti di Borgo, credo si potrebbe fare riferimento ai vecchi abitanti della parte alta e della parte bassa del paese: via Trento opposta a via Diaz, per semplificare un po'.
Risalendo lungo via Trento si possono notare case padronali che conservano rifiniture pregevoli: por tali lapidei che danno accesso ad androni o a cortili interni e finestre incorniciate in pietra. In via Trento, invece, le abitazioni sono più modeste, meno ampie e, soprattutto in inverno, godono dimeno sole.
Questa differenza non ha impedito a una mano ignota di dedicare parole affettuose a quanti abitavano via Diaz negli anni 1930-1940. In queste righe sono descritte con pochi ma vividi tratti persone che per lo più riposano ormai nel nostro camposanto; con loro, forse, anche l'autore o l'autrice."
In questo numero di Voci Amiche propongo ai lettori più anziani di ripercorrere con la memoria la destra di via Diaz, a partire dalla piazza. I più giovani potranno sco prire mestieri e attività scomparsi da qualche decennio insieme a termini non più in uso."
E, per finire, un grazie a Camillo Brendolise che ha messo a disposizione questo testo.
La nostra via l'è la pu bela che ghe sia, mi la ricordo sempre con tanto affetto e simpatia.
Nel gran palazzo dei siori Maccani vivevan tre famiglie, quele de Mario, Giulio e Gioan."
Mario sposà con la maestra Cincinnati, lori i viveva soli, no igaveva tosati.
Soli anca Giulio, el Podestà, co la so Pia, i gaveva en gran can par compagnia.
Gioani invezze con tre fioi e la moglie Rina e so mama Anna che fumava da sera ala matina.
Nella corte dei Brendolisi una marea di gente cordiale e gentile anche con poco o gnente.
Su par na longa scala la Gioana e Gino, Mano e la Maria e tanti toseti e tosete. proprio na gran compagnia.
Soto Giuste e la Gigia con tre toseti e la Gioana "Mora" che a tutti quei toseti la ghe fava da nonna.
Al de là Meto con la moglie Virginia con en sciapo de toseti bei da far invidia.
I Bombasari detti "Tabi ", gente umile e onesta,i fava car gozzi e bene tutti i dì, ma mai de festa."
Aie in procession e portava sempre el confalon.
Gigio Doro, con grandi baffi e molto fiero, el gaveva l'aspeto de 'n gueriero.
Ghera la Gianna che la Virginia la ghe fava da mamma.
La Fiorentina capelli d'oro di spasimanti ne aveva tanti.
Nella casa la vicina c'era Angelo e la Costantina.
Più in là Angelo Pallaoro con so femena Crestina, con famiglia vivace, vociante, allegra e canterina. Con so nono dispetoso e brontolon che come confratelo el ne tegneva in fila in procession. I Troiani con la Gegia e Bepi baffon, zinque toseti e magro el bocon. Con la bionda Matilde che poverina cuciva e cuciva ma, piano piano, la sua vita sfioriva.
Conci Vittorio e la Maria, quatro toseti e la nona Celestina che la 'ndava a Messa ogni mattina."
Gigio e la Pina Debortoli e la nona Margetta che la fava filar drite la Rita e la Maria.
La Maria Mora, soto de lori, la tegneva do vecioti come dei signori."
Milgio Baste et copava parchi, ma proprio davero, et doparava cortei, zalin, vandugola e tangero."
El gaveva quatro bastecole e solo na braga e so femena Pina la guariva ogni male col so onta de erbe.
Dopo ghera la Nani, sola e tristota, come la so vizzina Fani Tisota.
In zima a na scala tanto erta e streta ghera la Nigia, la Natalia, Albano e Anetta.
Pu in là viveva la Pina e Bino Moretto coi so tre fioi: Gino, la Ines e Brunetto.
La Miria Vinante in fondo a la via la era coccolà da nona Oionigia, nono Toni e za Maria.
La famiglia Longo, detti "Titoni", costruivano botti e bottesoni. So cugin là vizin anca elo l'era 'n Longo ma poreto! Da tutti l'era ciamà Beppi Monco.
Beppi de la Lena sempre puntuale, de Castelnovo el tegneva lustre le strade. Bepi e la Pina stradarola l'era gente che preferiva star da sola.
I Bombasari ciamai "Mosegheta", la mamma Giacomina la li tegneva neti e lustri ogni matina.
Carlotta
Voci amiche Maggio 2019
Quando arriva il momento di commentare dalla pagine di Voci Amiche la sagra di Santa Margherita si corre il rischio di essere ripetitivi.
Quest'anno ho pensato di onorare la ricorrenza ricordando un nostro compaesano molto devoto alla Santa. Del resto molti Casteinovati che hanno lasciato per motivi vari la Valsugana hanno mantenuto nel tempo una profonda devozione per Santa Margherita, facendo il possibile per essere presenti in luglio alla Messa celebrata nella chiesetta che porta il suo nome.
Primo Rodler ha fatto di più: ha terminato la sua vita terrena il 20 luglio (del 1987), nel giorno in cui la Chiesa celebra la festa liturgica di Santa Margherita.
Chi ha un'età attorno ai 70 anni si ricorda di Primo Rodler (nato nel 1911), ma immagino che per molti altri sia un perfetto sconosciuto. Affido il suo ricordo alla penna di Giovanni Gozzer (1915-2006) che nei primi anni 2000 ha inserito un affettuoso profilo di Primo in una raccolta intitolata "II vento e le orme sulla sabbia".
Un ragazzo come tanti nella piccola località di Casteinuovo sulla Brenta.
All'epoca di cui parlo Casteinuovo era una frazioncina quasi dimenticata, nella bassa valle, soggetta spesso a inondazione della Brenta e con aree qua e là paludose. La vita castellana si era spostata verso monte: Telve, Scurelle, Strigno, Ivano.
Primo Rodler, modesta famiglia contadina, aveva certamente una vocazione al sacerdozio, che non potè mai soddisfare per mancanza di mezzi, necessari anche per essere introdotti alla vita del seminano. Ma la sua profonda religiosità fu apprezzata, credo, da un sacerdote di Casteinuovo, don Giovanni Venzo (don Gioanin) che, a sua volta, aveva trovato studi e accoglienza nel seminario della chiesa vescovile di Massa Carrara. E fu, mi par di ricordare, attraverso la sua buona presentazione che il Vescovo di Massa dell'epoca accolse il Primo alla sua "mensa" come addetto alla persona. Trascorse in questo ruolo molti anni della sua vita, tornando sempre, durante l'estate, nella sua natia Caste/nuovo.
E fu in uno di questi periodici ritorni che lo conobbi. Ed ebbi molte successive occasioni di incontrarlo, dato che egli stesso desiderava qualche conversazione con me. La sua religiosità aveva allo stesso tempo qualche cosa di semplice e di assoluto, di ascetico. Avviava con me lunghe conversazioni sulla fede, sui valori religiosi, sull'importanza della preghiera.
Ebbi notizia della sua scomparsa molti anni dopo. Anziano ebbe una vita lunghissima, sempre fedele al suo piccolo breviario e al libretto, che regolarmente portava con sé, della "Imitazione di Cristo". Sta di fatto che qualcuno redasse di lui una bella memoria in quartino con fotografia e dati biografici.
Oggi non so chi ancora lo ricordi. È bello sapere che queste previsioni pessimistiche non si sono avverate: giovedì 20 luglio, durante la messa celebrata nella chiesetta di Santa Margherita, abbiamo pregato anche per Primo Rodler perché la nipote Bruna ha voluto ricordarlo nel trentesimo anniversario della morte.
E dalla "bella memoria in quartino" citata da Giovanni Gozzer e conservata dalla nipote, riprendo alcune righe che ne completano la biografia. Con la morte della mamma (1935) è libero di seguire la sua vocazione. È aspirante all'Istituto Salesiano Coletti (VE). Dal '38 al '39 egli fa il noviziato ad Este ma non viene ammesso alla prima professione per motivi di salute. Viene comunque mandato a Pordenone per assolvere al compito di portinaio.
E soltanto nel 1942 viene ammesso alla prima professione religiosa.
Così finalmente Primo corona il suo sogno di vita religiosa e diventa salesiano ad Este il 16 agosto del 1942. Tré anni dopo, nel '45 farà la professione perpetua.
Tutta la vita di Primo si svolge in questa comunità di Pordenone. Sarà portinaio fino al '55. E dal 1955 sarà il sacrista della nuova chiesa di san Giovanni Bosco di Pordenone".
Le celebrazioni liturgiche significative delle nostre comunità (come quelle recenti per san Leonardo o del Natale) sono solitamente solennizzate con l'uso da parte del sacer dote di indumenti particolarmente preziosi, in seta e ricamati con fili d'oro e d'argento.
L'iconografia presente nei paramenti - pur mutata nel tempo - ha origini antiche nei miti greci, latini ed è ripresa nei testi medievali; a partire dal XVI secolo risente poi delle nuove scoperte geografiche e dell'importazione di piante esotiche dall'oriente.
Le immagini di fiori, frutta e a volte anche di insetti non erano puri e semplici elemen ti decorativi ma - attraverso simboli e alle gorie - rimandavano a contenuti profondi e a significati teogici e spirituali complessi.
Come i cicli di affreschi, le pavimentazioni e i mosaici anche i paramenti sacri rivesti vano l'indiscussa importanza comunicativa del messaggio religioso cristiano. Piviali, Paramenti preziosi pianete, copricalici... preziosi di un tempo ricordano a noi fedeli di oggi la devozione dei fedeli di un tempo. Essi - con notevoli sacrifici e in tempi economicamente più difficili degli attuali - commissionavano a veri e propri maestri dell'arte tessile i capolavori
che ancora conserviamo, per dar lode a Dio e solennizzare ulteriormente le celebrazioni liturgiche. Anche il nostro Museo diocesano - che si trova nel Palazzo Pretorio di piazza Duomo a Trento e che suggeriamo di visita-
re perché veramente interessante - ha riservato un'intera sezione ai preziosi paramenti liturgici del passato.
M. G. Ferrai
Nel mese in cui si ricorda la B.V. Maria del Rosario vorrei portare all'attenzione dei lettori uno dei tanti capitelli dedicati alla Madonna che si trovano nel territorio di Casteinuovo. Si tratta di quello conosciuto come capitello di Riva Telve.
Ci sono passata davanti a piedi (non in auto mobile come al solito) e sono rimasta colpita dal suo stato di abbandono. Già le strutture adiacenti, predisposte credo negli anni '90 per creare un'area di sosta, danno un'impressione spiacevole: lo steccato e la panchina sono entrambi danneggiati. Andrebbero sostituiti o, quanto meno, riparati e ripuliti; allo stato attuale non invitano certo a fermarsi per una preghiera o un pensiero rasserenante!
Il capitello, eretto in occasione dell'Anno Santo 1900 come attesta la scritta nella nicchia, non è in condizioni migliori; la grata è arrugginita, l'intonaco scrostato. Peccato perché è valorizzato da due belle colonnine e forse sotto tanti strati di intonaco potrebbero esserci degli affreschi. Però ho notato un lumino acceso, dei fiori finti ma recenti, una scopetta in un angolo: qualcuno ancora si prende cura di questa edi cola votiva.
Da una breve (e senz'auro incompleta) ricerca in paese ho dedotto che, con l'invecchiare di tante brave persone, sono rimasti solo alcuni appartenenti alla famiglia di Clemente Campestrin a occuparsene saltuariamente perché per gran parte dell'anno vivono a Trento.
Triste destino per questo capitello!
Ho fatto un confronto con gli altri capitelli di Casteinuovo. Quello dell'Addolorata e quello di via Broletti segnano il punto estremo dellev processioni e quindi, almeno due volte all'anno, sono oggetto di devozione; i più lontani (alla Fusina e alle Spagolle) sono inseriti in un grappolo di case e le famiglie che vi abitano ne hanno cura. In questi ultimi anni abbiamo
concluso la recita del Rosario nel mese di maggio al capitello delle Spagolle, a quello di via Maccani, a quello dell'Addolorata: temo che del capitello di RivaTelve ci siamo proprio dimenticati...
Lancio un appello: c'è un gruppo o un'associazione tra le tante realtà che rendono vivo il nostro paese in grado di intervenire (con i dovuti permessi) per preservare questo manuatto da un ulteriore degrado?
Grazie.
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DEL BAITO DI VAL CALDIERA POSTO A QUOTA 1579
Premessa : ANNO 1987 09.07.1987 - Ha inizio la fase di preparazione di tutti i materiali necessari al ripristino del baito. 04.06.1987 - Si provvede alla piallatura dei cantieri del tetto. 14.06.1987 - II legname viene verniciato. 26.06.1987 - Idem come sopra. 27.06.1987 - Si provvede all'imballaggio delle perline ed alla verniciatura del tavolo. 28.06.1987 - Hanno inizio i lavori al baito. 05.07.1987 - Secondo giorno di lavoro al baito. 10.07.1987 - Con furgone viene trasportato in Civerone vario materiale (porta - finestre - materassini - tavolo - panche - attrezzi vari - ecc.). 11.07-1987 - Con trattore si provvede a trasportare in Civerone tutto il legname occorrente. Le lamiere del tetto e altro materiale da lattoniere vengono trasportate con furgone. 12.07.1987 Giorno di S. Prospero: terza giornata di lavoro al baito. Il tempo è variabile. 02.08.1987 - Tempo variabile. 09.08.1987 - Partenza da Castelnuovo con jeep, verso il Fagarè di Civerone, alle ore 5.00. 12.08.1987 - Oggi dovrebbe essere una giornata decisiva. 15.08.1987 - Ferragosto ! 16.08.1987 - Sveglia alle 7.00.
Colazione e poi al lavoro. 19.08.1987 - Partenza da Castelnuovo nel pomeriggio. 20.08.1987 - Provvediamo a ricoprire le fughe e a terminare gli ultimi mq. di perlinato del sottotetto. 23.08.1987 - Partenza da Castelnuovo per il Civerone; poi a piedi fino al baito. IL BAITO E' TERMINATO 30.08.1987 - Partenza da Castelnuovo alle ore 5.00 con jeep. Ha qui termine la descrizione dei lavori eseguiti bell'anno 1987. ANNO 1988 Entusiasta della buona riuscita dei lavori eseguiti al baito nell'anno 1987, la solita squadra di volontari ha deciso di por mano anche alla ristrutturazione delle pertinenze del baito medesimo ed in particolare della legnaia e del posto di cottura. Riportiamo qui di seguito una breve relazione. 17.07.1988 - Partenza da Castelnuovo alle ore 5.00. Arrivo al baito alle 8.00 circa. 28.07.1988 - Con l'elicottero dell'Eliservis tutti i materiali necessari alla ricostruzione della legnaia e del posto cottura vengono trasportati a quota 1579 (Aia del baito). 30.07.1988 - Ha inizio il montaggio della scala del baito per l'accesso al sottotetto. 31.07.1988 - Allestimento della copertura della legnaia e tamponamento perimetrale. 01.08.1988 - Posa in opera del manto di copertura della legnaia - ripristino fossa immondizie ed accatastamento della legna. 15.08.1988 - Viene eseguito il focolare e costruito il cesso. 04.09.1988 - Viene costruita la staccionata in legno attorno all'area di pertinenza del baito. 10.09.1988 - A spalle, dal Civerone, vengono trasportate al baito le perline necessarie al tamponamento del frontespizio della tettoia. 11.09.1988 - Posa in opera del tamponamento del frontespizio della tettoia. IL BAITO E' ORA COMPLETO E DOTATO DEI SERVIZI E ATREZZATURE ESSENZIALI Qualche cifra. La spesa per la ristrutturazione del baito e pertinenze ammonta ad oltre cinque milioni di lire. Il denaro è stato reperito e raccolto presso Enti, Associazioni varie e privati cittadini. Nella somma riportata non figurano le offerte in natura (peraltro consistenti), dei trasporti del materiale in quota.
Avvertenze Il baito è aperto a tutti e tutti ne possono usufruire. Appendice Si riportano in fotocopia alcuni articoli di giornale apparsi sulla stampa locale durante i lavori di costruzione e ristrutturazione del baito. CASTELNUOVO LANCIA VAL CALGERA, STASERA UNA RIUNIONE APERTA A TUTTI L'intenzione è quella di rifare il "baito" in una località molto amata all'intera comunità. A Castelnuovo, la storia del "baito" in località Val Calgera a quota 1579, ci viene raccontata da uno che si firma come "un amico lavoratore del baito". Ed è storia che presenta aspetti interessanti: per questo l'abbiamo raccolta. "Ci vollero racconta l'amico molti sabati e molte domeniche per alcuni anni, prima di vedere il baito realizzato. Si dovettero sopportare enormi fatiche per avere sul posto i materiali necessari alla costruzione: tutti portati a spalla partendo dal paese e scendendo sul posto dopo aver raggiunto, con un fuoristrada, l'Ortigara. "La Val Calgéra precisa l'amico si trova a nord del monte Ortigara, che la sovrasta con suoi 2061 metri; racchiusa ad est dal Colazo o Colon da Gné: come lo chiamano in paese) sulla sommità del quale si trova lo storico passo dell'Agnella e ad ovest dalla val Porsiria: questi limiti corrispondono ai confini della proprietà catastale del Comune di Castelnuovo con i Comuni dell'Altopiano di Asiago e, nel contempo, sono anche confini di provincia, di regione e del Comune con Villa Agnedo da un lato; del Comune di Borgo dall'altro. L'amico conosce bene la storia dell'Aia di Val Calgéra e consultando vecchi documenti può informare che lassù, in tempi antichi, si coltivavano orzo e avena; in tempi più recenti vi si pascolavano le pecore. "Oggi precisa meta esclusiva di chi ama la montagna perché qui la bellezza ancora quella selvaggia, anche se l'uomo durante la Grande Guerra vi operò in modo da lasciare segni evidenti del suo passaggio... E meta anche di cacciatori". Da: "Alto Adige" di venerdì 19.6.1987 UNA NUOVA VITA PER IL BAITO II vecchio edificio di Val Calgera viene "recuperato" grazie al lavoro di un gruppo di amici della montagna. CASTELNUOVO Il vecchio baito di Val Calgera, costruito nel 1970 da un gruppo di volenterosi amanti della montagna di Castelnuovo, era da tempo inutilizzato causa dell'ormai inderogabile necessità di sottoporre l'edificio ad un radicale intervento di manutenzione ordinaria e straordinaria. Nelle domeniche successive si è continuato a lavorare con entusiasmo, preparando il tutto in attesa dell'arrivo in quota di quanto programmato per il dodici agosto. Domenica 23 agosto è stato completato il rivestimento interno in perline e siè provveduto alla tinteggiatura della struttura portante. Da: "l'Adige" del 3.9.1987 IL BIVACCO AIA IN VAL CALGERA. Ristrutturato da volontari armati di tanto entusiasmo. Conversiamo con "il gruppo di persone di Castelnuovo" promotrici ed interpreti concreti della ricostruzione del baito Aia Val Calgera, a quota 1579 e ci colpisce subito la genuinità e l'entusiasmo di cui sono cariche le loro risposte.
Nel 1970 trenta metri a valle del vecchio baito dei pastori, ne veniva costruito uno nuovo: anche allora, furono alcuni abitanti particolarmente fedeli alla Val Calgera che, con il Civerone, costituisce la "copia montana" più amata per gli abitanti di Castelnuovo. 17 anni dopo "ecco un'altro gruppo di persone volenterose che, constatando l'evidente stato di deterioramento del manufatto decide di ristrutturarlo totalmente". I volenterosi diventano sempre di più ed i lavori iniziano: in un giorno si demolisce il tetto, si tagliano i larici e si mettono in opera in modo tale che, nel sottotetto si possa ricavare un locale da adibire ad un dormitorio. "E' un grosso sospiro di sollievo: è una soddisfazione profonda ... Già dal 23 agosto abbiamo un ricovero sicuro con l'interno completato". Mancano lavori di rifinitura, ma si tratta di interventi che non spaventano più. Arriva, per un lungo tubo di gomma anche l'acqua. "Non è cosa giusta fare nomi - rispondono gli amici di val Calgera - una trentina di persone hanno lavorato lassù, ma non vanno dimenticati gli interventi esterni! Da: "Alto Adige" di martedì 15/9/1987 ACCANTO AL BIVACCO IN VAL CALGERA UNA PIAZZOLA PER L'ELICOTTERO COSTRUITA DA UN GRUPPO DI AMICI. Accertata la possibilità di superamento della difficoltà rappresentata dal trasporto del materiale - dopo che la Heli - Service, società di lavoro aereo del gruppo Celta aveva garantito l'appoggio del suo intervento - gli (amici di Val Calgèra hanno realizzato la ricostruzione del bivacco e sono andati molto più in là. Cosi racconta un (amico che ha vissuto dall'interno questo lavoro eseguito in estremo volontariato e rimasto un desiderio fino all'inverno scorso: " ... anche il Corpo dei vigili del fuoco volontari del nostro paese ha voluto dare il suo contributo in Val Calgèra, realizzando, a poche decine di metri a monte del bivacco, una piazzola per elicottero. Desidero precisare che di notevoli dimensioni, avendo un lato di cinque metri e l'altro di sei. La si è potuta realizzare attraverso un impegno generoso nell'arco di una sola giornata di lavoro duro." La sua altezza (80 - 100 centimetri) serviva per contenere il materiale ricavato a monte del manufatto per realizzare una superficie piana (30 metri quadrati). Da: "Alto Adige" di giovedì 22.10.1987 CASTELNUOVO Grazie all'impegno e alla generosità di un gruppo volontario di giovani di Castelnuovo stato possibile ristrutturare completamente il baito di Val Calgera, realizzato 17 anni fa per metterlo a disposizione di quanti amano le escursioni in alta montagna, ma reso praticamente inservibile a causa degli acciacchi dell'età. Da: "Vita Trentina" IL "BAITO" DI VAL CALGERA DIVENTA "UNA BAITA" (O QUASI) " Baita ", secondo la definizione che ne da lo Zingarelli è, o meglio era "una piccola costruzione di sassi o di legname, assai comune in alta montagna, usata specialmente come deposito o come ricovero di pastori ".
Il suo significato è ora abbastanza diverso, poiché le "baite" sono diventate casette o villini eleganti, e spesso lussuosi, anche se non sempre costruiti all'insegna del buon gusto. Cosicché uno scrittore famoso Paolo Morelli, qualche tempo fa aveva potuto coniare per Cortina D'Ampezzo il neologismo "megabaitopoli". In dialetto valsuganotto tuttavia ci si riferisce a "baita" usando il maschile "baito". Ed era solo per "el baito" che si può accettare, credo, la definizione data per "la baita" dallo Zingarelli.
I lettori di (Voci Amiche) vorranno scusarmi per questa lunga introduzione di carattere lessicale, il cui scopo è di dare una spiegazione al titolo di queste brevi note.
Circa venti anni fa i giovani di Castelnuovo e qualche non più giovane - tra questi mi permetto di ricordare Vittorino Boiler, Fantin Gelindo e Aldo Bastiani che purtroppo non sono più tra noi -, decisero di ricostruire "el baito di Val Calgera". Anche il " posto di fuoco e cottura " è stato completamente ricostruito e dotato di ottime attrezzature. Diciamo questo per sottolineare che sono di questo tipo le gare e le competizioni che sarebbe bello vedere instaurarsi e svolgersi tra le nuove generazioni. Pubblicazione apparsa su "Voci Amiche" a cura di V. Gozzer
CASTELNUOVO DOPO MESI DI LAVORO VOLONTARIO All'inaugurazione anche il Sindaco Pierluigi Coradello Nonostante il cattivo tempo in località val Calgera di Castelnuovo si è svolta regolarmente la breve cerimonia di inaugurazione del "baito". Alla cerimonia presente una trentina di appassionati della montagna, tra i quali il sindaco Pierluigi Coradello e Franco Gioppi comandante della Stazione soccorso alpino di Borgo. Ad inaugurazione avvenuta, il ristoro offerto dalla Pro Loco. Nel pomeriggio, cessata la pioggia, il rientro. "Tutti soddisfatti - commenta uno che si definisce amico del baito - di una giornata trascorsa insieme e in allegria tra quelle montagne che sono tanto care ai 'casternovati'. Da: "l'Alto Adige" di ... Rendete grazie al Signore: egli è buono! Eterna la sua misericordia. A cura di Don Alberto Tornasi
Già da tempo immemorabile esisteva a quota 1579 una minuscola malga comunemente denominata " baito dell'Aia di Val Caldiera ". Nel 1969 tale baito era talmente mal ridotto e cadente da non poter più venire usufruito dai pochi escursionisti e cacciatori che allora frequentavano la zona.
Nacque cosi l'idea fra alcuni volontari di Castelnuovo, di ricostruire il baito ex novo, in posizione però leggermente diversa rispetto alla precedente, ritenuta poco sicura. Il nuovo baito venne iniziato e terminato nell'estate del 1970.
Per ben diciassette anni adempì egregiamente alle sue funzioni, ma naturalmente la vetustà ed anche le esigenze un po' mutate, consigliavano una ristrutturazione generale. Conseguentemente, anche questa volta, si è formato un gruppo di volontari che, spendendo parecchi fine-settimana, ha consentito la realizzazione dei nuovi lavori. Di seguito riportiamo le notizie principali.
Alcuni dati significativi relativi al materiale impiegato:
- nr. 16 assi di larice da ml. 4.00x2.50 cm.;
- nr. 31 cantinelle da cm. 5x3x4.00 ml.;
- nr. 4 mantovane da cm. 2:50x18x4.00 ml.;
- nr. 20 filetti da cm. 1.50x5x4.00 ml.;
- nr. 10 cantinelle di larice da cm. 5x4x4.00 ml.
- nr. 26 cantieri da cm. 10x12x3.20 ml.;
- nr. 7 cantieri da cm. 10x12x4.00 ml.;
- nr. 51 perline da pavimento da cm. 12x2.80x4.00 ml.;
- nr. 80 perline da rivestimento da cm. 12x1.50x4.00 ml.;
- nr. 79 tavole con battuta da cm. 12x1.50x4.00 ml.;
- nr. 3 colmi in lamiera testa di moro;
- nr. 4 converse da ml. 3.00;
- mq. 43,20 di lamiere grecate per il tetto.
La partenza fissata in piazza a Castelnuovo alle ore 5,30. La jeep - via Monterovere - arriva al bivio Italia (Ortigara) alle ore 8,30, in quanto la strada era parzialmente interrotta da slavine.
Si prosegue - sempre in jeep - fino a Cima Castelnuovo.
Poi il tragitto fino al baito coperto a piedi. Là aspettano altri volenterosi saliti a piedi dal versante Nord. Breve sosta per la colazione, poi si da inizio ai lavori di demolizione del tetto, mentre altri provvedono al taglio di larici per la sopraelevazione del baito, che ha luogo nel primo pomeriggio.
Alle 16.00 le pareti perimetrali sono già all'altezza del primo solaio. La giornata di lavoro ha termine e sotto un sole ancora alto ci si avvia, a piedi, verso i prati di Civerone dove attende la jeep per il ritorno a Castelnuovo.
La partenza da
Castelnuovo viene fissata alle ore 4.15. La jeep - via
Monterovere - arriva sotto Cima Castelnuovo verso le ore 6.00.
Caricati attrezzi e viveri sulle spalle, nonché 20 litri di vino, ci incamminiamo verso il baito dove arriviamo verso le ore 7.00.
Breve colazione e subito al lavoro per preparare il piano d'imposta del solaio.
Altri provvedono a rimuovere le vecchie brande e altro materiale fatiscente.
Vengono pure scortecciati tutti i tronchi che formano le pareti perimetrali del baito. Verso le 13.30, sotto un cielo nuvoloso, ci siamo avviati a piedi verso il Civerone.
"La partenza da Castelnuovo viene fissata alle ore 4.00.
Questa volta con mezzi propri, si raggiunge il Fagarè di Civerone e poi, dopo breve sosta, si prosegue a piedi verso il "Gravon" Si arriva al baito verso le ore 7.30.
Subito ci mettiamo al lavoro; vengono tagliati tre larici per le banchine e il colmo del tetto la cui lunghezza arriva a ml. 7.50.
Mentre alcuni scortecciavano e preparavano le banchine ed il colmo, altri provvedono a sistemare gli ultimi tronchi delle pareti e le banchine.
Durante la mattinata, arrivano altri volenterosi a dare una mano.
A mezzogiorno pastasciutta e poi un breve sonnellino.
Verso le 13.00 abbiamo visite di escursionisti fuori zona (TN), che comunque ci aiutano a mettere in opera la trave di colmo data l'altezza ormai considerevole dello stesso.
Infine predisponiamo il foro per l'accesso al sottotetto ed il foro finestra della parete Ovest. Viene pure terminato il lavoro di scortecciamento dei vecchi tronchi.
Verso le 16.00, stanchi ma soddisfatti per l'ottimo lavoro svolto, prendiamo la via di casa.
Quarta giornata di lavoro al baito.
Partenza alle ore 5.15 con jeep. Direzione Fagarè (Civerone).
Verso le ore 6.00, dopo aver caricato in spalla cambre, chiodi e altro materiale, ci mettiamo in cammino verso il baito dove arriviamo alle ore 7.30 circa.
Breve colazione e poi al lavoro. Viene abbattuto un larice per la formazione della capriata di sostegno delle travi di colmo e delle banchine.
Vengono pure messe in opera due colonne di sostegno della capriata, che poggiano, per non marcire su delle basette in ferro (piedini).
Ormai anche la grossa orditura del tetto è pressoché terminata, come pure quella della tettoia antistante.
Per la verità siamo un po' giù di corda vedendo che le file dei volontari vanno sempre più assottigliandosi, ma teniamo duro, confidando nella buona sorte e nell'aiuto anche di qualche persona estranea che, per la verità, non manca.
Oggi infatti abbiamo avuto la visita - non aspettata - di un socio della S.A.T. di Borgo che ha contribuito, oltre che a darci una mano, anche a sollevare il morale.
Nel primo pomeriggio, dopo una breve pausa, abbiamo ultimato la scortecciatura dei tronchi, mentre altri predisponevano i frontespizi (timpani).
Dopo qualche chiacchiera ed un bicchier di vino, verso le 15.00 siamo scesi a valle, contenti del lavoro svolto.
Caricati in spalla barattoli di carbolineom e pennelli, ci avviarne a piedi verso il nostro "cantiere", dove arriviamo verso le ore 7.45.
C'è con noi anche una persona di Milano, che ci aiuta nei lavori di coloritura e verniciatura delle travi. Altri, intanto, provvedono a sistemare il foro della porta d'entrata ed a "ritagliare" le finestre del piano terra. Così tutti i lavori relativi alla struttura portante del baito sono terminati.
Ormai manca solo il materiale già predisposto a valle - sui prati di Civerone - che dovrà venir trasportato con elicottero la prossima settimana.
In mattinata il tempo è molto nuvoloso e promette pioggia, ma nel pomeriggio abbiamo qualche schiarita. Verso le 15.00 prendiamo la via di casa.
Si porta il materiale da Civerone al baito con l'elicottero.
Siamo un po' perplessi, perché le nuvole e nebbia avvolgono tutta Val Caldiera e l'Aia del Baito. Ma noi speriamo in qualche schiarita.
Alle 7.00, ci avviamo verso i prati di Civerone per gli ultimi preparativi. Tutti siamo andati con i nostri mezzi.
Verso le 9.00 arrivano anche due dipendenti della "Eliservis" (proprietaria dell'elicottero) per predisporre le cosiddette "carge".
Alle 11.00 arriva l'elicottero, ma dobbiamo rinunciare al trasporto dopo un primo tentativo fallito per via della nebbia. Ciò nonostante, abbiamo la costanza e la pazienza di aspettare una schiarita.
Finalmente, verso le 17.00, la speranza diventa realtà. Il cielo ha un momento di clemenza, così l'elicottero può prendere il volo. Dopo un primo viaggio di ricognizione, ne seguono altri sei, permettendo così il trasporto di tutto il materiale accatastato a valle.
L'ultimo viaggio viene realizzato in tutta fretta, perché la nebbia già copre tutte le principali quote del versante Nord dell'altipiano.
Ma ormai che importa ? Il materiale è al sicuro a quota 1579.
La soddisfazione è grande!
Partenza da Castelnuovo alle ore 5.15 con mezzi propri diretti in Civerone (previo permesso del Comune).
Verso le 6.00 iniziamo a piedi la salita al baito dove arriviamo verso le ore 7.45.
Diamo inizio subito ai lavori di posa in opera dei cantieri del tetto e delle travi in legno del solaio. Viene pure realizzato tutto il tavolato del sottotetto, demolito il vecchio pavimento e posto in opera tutti i serramenti e le mantovane del tetto.
Con tubo geberit, viene pure realizzato un mini acquedotto che, raccogliendo l'acqua di una piccola valle senza nome, la convoglia verso la piana del baito.
Alle 21.00, tutti a nanna entro il "nuovo" baito, con sacchi a pelo e coperte.
Tempo: nuvoloso e coperto al mattino, qualche schiarita nel pomeriggio.
Viene posto in opera tutto il perlinato del sottotetto ed il pavimento del piano terra.
Verso le 8.00, arrivano anche i "lattonieri" che provvedono alla posa del manto di copertura del tetto.
Viene realizzato anche parte del selciato della tettoia antistante il baito e fatta pulizia di tutti i materiali di risulta.
Ormai mancano solo le rifiniture: ancora un po' di selciato ed il perlinato laterale al pianoterra.
La soddisfazione ormai prevale sulla fatica e verso le 16.00 prendiamo a piedi la via del ritorno.
Arrivo in macchina in Civerone, poi a piedi fino al baito.
Portiamo con noi 100 ml. di corda di canapa, che servirà a ricoprire le fughe del perlinato.
Il giorno seguente (24.8.1987) provvediamo alla perlinatura dei frontespizi (timpani) del sottotetto.
Ritorniamo a piedi in Civerone dove ci attende la festa della Pro Loco.
Questa volta ci sono anche i pompieri. Arrivo al baito alle 10.00.
Ormai non si tratta più di por mano alla ristrutturazione del baito, ma di predisporre una piazzola per l'atterraggio dell'elicottero.
L'idea è scaturita anche dal fatto di contribuire, nei limiti del possibile, a garantire una maggior sicurezza in caso di incidenti.
In questa giornata contiamo ben 22 volontari al lavoro.
La piazzola viene terminata in giornata.
Breve pausa e subito al lavoro.
Provvediamo al recupero della legna esistente ed alla demolizione della legnaia.
Vengono abbattuti due larici per la formazione della banchina e del colmo della nuova legnaia che nel primo pomeriggio, vengono posti in opera.
Sono circa le 16.00 e ci avviamo verso casa.
Il lavoro ha termine il giorno successivo, 31 luglio 1988.
I pompieri hanno pure provveduto alla formazione della spianata adiacente alla piazzola dell'elicottero.
A quanti, nelle diverse forme, hanno collaborato alla realizzazione dell'opera, i più sentiti ringraziamenti.
Si raccomanda solo, anche se a queste quote ed in tali zone potrebbe sembrare superfluo, un uso civile sia delle strutture che delle attrezzature.
Qualche passo in avanti con la disponibilità ottenuta nel problema del trasporto di materiale.
Fu realizzato da un gruppo di castelnovati legati alla passione per la montagna, con particolare simpatia per Val Calgéra, località che assieme al Civerone rappresenta il luogo più amato per la comunità di Castelnuovo: vuoi per le bellezze naturali e ancora pulite che offre; vuoi per i precisi riferimenti storici che legano Val Calgéra e Civerone alla storia della Bassa Valsugana.
Quanto peso le lamiere del tetto... e le cortecce "de pézo" (abete rosso) tolte dalle piante in piedi parte in val di Sella e parte in Casa Bolenga: dovevano essere fissate sulle pareti internamente per bloccare gli spifferi".
Il baito così costruito sette metri per tre era semplice ma ospitale; vi si era ricavato anche un sottotetto per dormire, all'esterno era stato posto un focolare coperto. Questo punto fuoco sostituiva l'ormai impraticabile ex baito dei pastori.
Si viene così a formare quello che viene chiamato Bacino imbrifero del Rio Coalba, affluente destra del fiume Brenta".
Adesso si vuole che diventi meta accogliente per chi va in montagna da turista e perché lo sia è necessario ricostruire il baito. Ma amore per la montagna e volontà di agire non bastano, per quando la realtà si oppone con tutti i suoi ostacoli.
E il primo quello di avere lassù il materiale necessario alla ricostruzione del baito. Sulla carta e, tradotto in peso, fa segnare sulla bilancia quarantadue quintali: una cifra che spegne ogni intento, ma le necessità sono stimolo ad agire, fino ad approdare all'Eliservice: azienda che fa parte del gruppo Celta e che provvede ai trasporti aerei.
Si chiede, si ricontrollano i pesi, vi sono gli approcci necessari e la risposta generosa: l'Eliservice provvederà generosamente al trasporto del materiale.
Il superamento del primo e condizionante ostacolo rilancia l'entusiasmo degli amici di Val Calgéra, che adesso propongono un incontro a livello di comunità. Lo hanno fissato per questa sera (ore 20.30) nella sala riunioni della scuola elementare.
Porteremo dicono con grande speranza gli organizzatori a conoscenza della collettività il problema che riguarda la ristrutturazione e la conservazione (calcano la voce su quest'ultima parola!) del baito di Val Calgéra.
All'appuntamento, vorremmo poter contar un numero alto di presenti: li aspettiamo, per discutere assieme".
Il 28 giugno scorso, dopo alcune riunioni in paese promosse da un apposito comitato appoggiato anche dall'amministrazione comunale, è iniziata l'operazione "recupero".
Sono stati utilizzati materiali trovati in loco, come i tronchi di larice necessari per "muri" di elevazione, ed altri trasportati in quota dal fondovalle grazie alla disponibilità della Heliservice, società di lavoro aereo del gruppo CELTA di Scurelle, che intervenuta con un suo elicottero.
Si è incominciato con la demolizione del tetto e con l'innalzamento della " caena " per ricavare un locale da adibire a dormitorio nel sottotetto rivestito di lance.
Il decollo dell'elicottero a causa del maltempo è stato possibile soltanto nel pomeriggio e sono occorsi ben sei viaggi dal monte Civerone al baito per trasportare travature, tavolame, " perline " da rivestimento, lamiere per il tetto, pavimenti, porte, finestre, una stufa, materassi, coperte, materiale minuto, il tutto per una quarantina di quintali di peso, elitrasportati in una mezzora soltanto.
Il 16 agosto il tetto, i pavimenti e i serramenti sono sistemati a dovere e i volontari hanno tirato un profondo sospiro di sollievo perché ormai il più era fatto e si sarebbe potuto lavorare all'interno in caso di brutto tempo.
Attualmente rimane ancora qualche lavoretto di rifinitura, ma si tratta di cosette da poco: anche l'acqua arriva per mezzo di un tubo in gomma, ciò che consente una più confortevole permanenza nel baito-bivacco: una struttura solida e completamente rimessa a nuovo, utilizzabile da quanti amano la montagna.
A cura dei corpo volontario dei vigili del fuoco è stato provveduto anche alla realizzazione di una piazzola per l'atterraggio degli elicotteri, a poche decine di metri a monte del baito. Anch'essa sarà utile in caso di interventi di soccorso o per incendi boschivi.
IL " BAITO " costruito nel 1970, a quota 1579, è sempre stato molto caro agli abitanti di Castelnuovo.
La decisione si scontra tuttavia con la difficoltà di trasportare in quota oltre 40 quintali di materiali necessari. Si avviano allora i contatti i con la Heliservice società di lavoro aereo del gruppo CELTA. In zona, la Heliservice si è sempre dimostrata disponibile per questo tipo di intervento a sostegno concreto e determinante di iniziative, la realizzazione delle quali è legata esclusivamente al volontariato. La richiesta è stata valutata in tempi brevi la risposta è stata affermativa.
In un'altra domenica si completa la " caséla " (le tipiche pareti esterne di tronchi a incastro) e si sistemano tutte le parti principali che compongono il tetto.
Adesso può intervenire l'elicottero con il resto del materiale. La nebbia che s'addensa sulla valle nel giorno fissato per l'operazione, mette in angoscia gli operatori: già era saltato, per altri motivi, un appuntamento precedente! Poi la schiarita e il primo dei sei voli, con i quali sull'Aia verranno portati i cantieri ed il tavolato, le lamiere per il tetto e le assi per il pavimento, infissi e il "rivestimento", i materassi e le coperte: persino la stufa.
" E' un bivacco che si può definire bello! Qualcuno dice che è anche troppo .... ".
Aldilà della carica emotiva dei protagonisti, oggi vi è una struttura funzionale su una montagna che piace ed il baito è al posto giusto. Tant'è, che i pompieri - a poche decine di metri a monte del bivacco - hanno realizzato una piazzola per l'atterraggio di elicotteri.
Non tutti, infatti possono salire a lavorare di braccia! E non vanno dimenticate le istituzioni locali: nel settore economico od amministrativo e che altro fosse, hanno contribuito.
L'"interprete" ci fa rivivere, con la forza convincente di chi ha vissuto da dentro una realtà della proposta fino alla realizzazione, le varie fasi di quel "lavoro duro".
In sintesi si dovuto alzare un muro "a casela" (costruito cioè con tronchi in legno opportunamente incastrati alle estremità corrispondenti agli angoli del manufatto) su due lati.
L'opera si inserisce perfettamente al centro della Val Calgèra a quota 1.596, in una posizione ideale per eventuali soccorsi agli: escursionisti in difficoltà e per altri molteplici scopi.
Ogni intervento, sempre e comunque, ha una base di appoggio: il bivacco.
La forza del volontariato si imposta un'ennesima volta.
Ad opera di generosi volontari
RISTRUTTURATO IL BAITO DI VAL CALGERA.
Con diversi giorni festivi di lavoro e con l'aiuto determinante della Heliservice, una società di lavoro aereo del Gruppo Celta di Scurelle, che ha trasportato in quota i circa 40 quintali di materiali con l'elicottero, il baito è stato rimesso a nuovo e completamente attrezzato, con rivestimenti in legno, pavimento ed un nuovo locale ricavato nel sottotetto ed adibito a dormitorio.
Si è provveduto anche a portare nel bivacco l'acqua corrente (grazie ad un tubo di gomma) e all'installazione di una stufa, utile per riscaldare l'ambiente o per approntare i pasti per gli escursionisti.
Nei pressi del baito stata inoltre realizzata a cura dei vigili del fuoco volontari una piazzola per l'atterraggio di elicotteri, che sarà utile in caso di operazioni antincendio o di soccorso alpino.
Era il "baito", andato in rovina, della minuscola malga di Val Caldiera a quota 1579 proprio a ridosso del passo dell'Agnella a quota 2106 dell'Ortigara. Si voleva con ciò offrire un rifugio che servisse a chi si trovava a percorrere l'erto dirupo e selvaggio versante Nord della famosa montagna. Dove, tra l'altro, non pochi escursionisti si erano spesso trovati in difficoltà, con conseguenze qualche volta mortali.
La solida anche se rudimentale capanna che per tanti anni ha servito egregiamente allo scopo per cui era stata costruita, cominciava a dare qualche segno di vecchiaia. Un gruppo di giovani "Castelnovati" ha voluto seguire l'esempio della generazione che l'ha precede, e in questi ultimi due anni ha lavorato sodo per ristrutturarla completamente.
E bisogna dire che hanno fatto miracoli per trasformare il vecchio "baito" in una confortevole e quasi elegante "baita".
"El baito de Val Calgera", continuiamo pure a chiamarlo così, è perciò ora in grado di rivaleggiare, per come si presenta e per le comodità che offre, con il vicino "baito del Colazzo" (m. 1605), costruito una decina di anni fa dai giovani di Agnedo.
IL BAITO IN VAL CALGERA RISTRUTTURATO E APERTO
Adesso è affidato al senso civico dei frequentatori.
Sono trascorsi esattamente 26 mesi dalla data d'inizio dei lavori di ristrutturazione della vecchia struttura; tanto tempo è servito al gruppo di persone volenterose per completare l'opera fino nei minimi particolari. Basti pensare che, oltre al rifugio, alla "pendana" adibita a cucina e legnaia, alla piazzola per l'atterraggio degli elicotteri, durante l'estate un frequentatore abituale dell'Aia ha provveduto a predisporre una piccola area del terreno ricavandone un orticello nel quale ha seminato patate e cavoli, le une e gli altri goduti in seguito da quanti hanno frequentato il baito durante l'autunno.
Molti altri avevano dovuto rinunciare per le condizioni atmosferiche proibitive, pur avendo operato concretamente nella realizzazione del rifugio.
Tito Gozzer, autorevole conoscitore di queste montagne e maestro di vita, le ha ricordate tutte, dopo aver dato lettura di una toccante preghiera scritta per l'occasione da don Alberto Tornasi.
Rinnovo il grazie caloroso a coloro che hanno contribuito alla realizzazione del progetto, in particolare all'Heli Service che ha provveduto generosamente al trasporto in quota dei materiali".
Adesso il baito, tanto confortevole, da ospitalità sicura e completa e viene affidato alla cortesia di quanti passano da quelle parti.
PREGHIERA PER LA BAITA DI VAL CALDIERA
Gloria al Padre e al Figlio .... Come era nel principio ....
Il nostro aiuto è nel nome del Signore.
Egli ha fatto il cielo e la terra.
Il Signore sia con voi.
E con il tuo spirito.
Preghiamo:
Signore, Padre Santo, Dio onnipotente ed eterno effondi la tua benedizione su questa baita. Essa serva per la serenità degli animi e per la concordia dei cuori e quanti in essa trascorreranno un po' di tempo con rendimento di grazie accrescano nei loro cuori l'amicizia e alimentino pensieri di pace.
Fa, Signore, che dopo aver goduto di quest'atmosfera di serenità che quassù respiriamo, diventiamo portatori di pace.
Abbatti, Signore, le barriere che ancora dividono i fratelli dai fratelli.
Cessino le divisioni, le guerre, l'oppressione dei deboli.
Ciascuno di noi abbatta prima le barriere del suo cuore, si apra agli altri, a tutti.
Benedici quelli che lavorano per la pace a qualunque razza religione, nazione appartengono.
Per l'intercessione di Maria Santissima, Regina delle cime, Regina della pace,
Tutto questo lo chiediamo per Cristo Nostro Signore.
Amen.